23 ottobre 2016

Six feet tall: ecco il loro debutto

È domenica mattina e mi sono svegliato abbastanza presto per poter attaccare alla porta del bagno i due appendini Ikea che sono lì dalla scorsa primavera. Diego però mi aveva mandato in settimana il primo disco del suo nuovo gruppo, i Six Feet Tall, e così ho pensato di recensirlo. Questo “Same Title” esce come seconda produzione per la Uà Records di cui vi avevo già parlato, un progetto discografico a cavallo del Tevere portato avanti da gente che ne sa. Il disco di cui parliamo è qualcosa di davvero nuovo e intricato. Sei brani di una musica che in Italia non si sente molto e subito ti domandi il perché. Perché bisogna essere capaci di farla, semplice.
I tre perugini in questione (già attivi con Northwoods, Ouzo e Vento d’Ottobre tra gli altri) ci sottopongono così d’emblée un EP di math rock che pare uscire da un basement di Seattle fotografato sul finire degli anni ‘80. Diciamo 1993, dai. Ragazzi non sto scherzando, io dei Soundgarden ho ascoltato fisso solo “Louder than Love” e i Six Feet Tall mi ricordano troppo quelle atmosfere, quel modo di dettare i tempi e disperarsi sugli strumenti. Matador Records, Sub Pop, cuffie di lana indossate perennemente, cose così insomma. La loro bravura comunque sta nel riempire bene tutto: dalla voce impastata e sonorissima agli spettrali rintocchi di basso, dalle false partenze sludge alla batteria ovattata ma non compressa come va di moda oggi. Non si tratta di rifinitura, ma di sostanza. Non terminano molti giri, forse solo in A fun that never sets i chiude qualche cerchio ma non ne sono poi così sicuro. Ah, sì, i titoli. Le sei canzoni sono un rip/off, una rivisitazione di grandi album rock. Quello sopra citato lo conosciamo tutti, Neurosis. Poi abbiamo Hopeless semantic dei Bouncing Souls e l’apertura con How to spleen everything,  che mescola audacemente Propagandhi e Baudelaire. Washing my scene è la mia preferita sebbene richiami un gruppo, i Sonic Youth, che non ho mai ascoltato così tanto. Diciamo per niente. È un pezzone, ragazzi. Complicato, arrogante, veloce e tribale. Sì non ci sono dubbi, è la mia preferita, da riascoltare a valanga. Zen ar cane parte molto Kyuss ed è forse il pezzo più solare dell'intero lavoro. Voids don’t cry ( facile questa, dai) chiude in bellezza con dei bei fischioni iniziali e una cascata di rullate e chugga chugga alla vecchia maniera, la scuola Hydrahead degli Isis di “Celestial” e Merzbow si sente eccome. Anche se i suoni sono più sporchi e melmosi, spezzati e compatti. E non dite che ci avevate pensato, al citare album famosi per intitolare dei vostri pezzi. Cioè, ci avevate pensato, ma poi non l’avete fatto, mettiamola così. Io invece ho desistito dal trovare il modo di attaccare alla porta gli appendini. Grafiche oniriche e immaginifiche a cura di Tommaso di Spigna, nel booklet trovate altri suoi disegni fatti apposta per il disco. Perchè non ci facciamo mancare niente, non possiamo proprio. Andrea Vecchio

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