18 aprile 2016

Romantico: dopo i Grenouille la resurrezione artistica di Marco Bugatti (recensione + intervista)

I Grenouille erano un gruppo grunge. Facevano canzoni con testi in italiano e, per un periodo, sono stati considerati "il prossimo gruppo che diventerà famoso". Marco Bugatti ha provato per tanti anni a portare la sua personalissima creazione al livello successivo: sfondare, vivere di musica, come un ragazzo poco cresciuto e troppo cocciuto farebbe. Eppure i Grenouille sono scesi dal carrozzone così, da un giorno all’altro, con la stessa irruenza con cui vi erano saliti. I veri motivi della brusca discesa, tutti i motivi, non li sapremo forse mai. Ma Marco Bugatti c’è ancora. Il suo primo disco solista si intitola Romantico e il fuoco rimane lo stesso del 2008. Il personalissimo fuoco di un artista che cerca ancora il suo pubblico da scaldare.

Il disco ha una durata forse inferiore a quella di un classico album ma superiore a quella di un EP. Il songwriting è molto variegato ma sempre riconoscibile. Non è un disco costruito intorno ad un paio di brani di spicco: i brani risaltano tutti quanti, ognuno per un motivo diverso. Si intuisce che i pezzi sono stati costruiti in momenti diversi e in sessioni diverse. Alcuni li avevamo già sentiti, noi di AsapFanzine in prima persona, quando Bugatti ha suonato alla Casa di Paglia di Fontaneto D’Agogna due anni fa, in una delle sue prime esperienze post-Grenouille. Vero parte da uno spunto molto buono di chitarra acustica e con lo stesso approccio nasce anche La fabbrica, il cui sound richiama il folk americano delle piantagioni di cotone. In altre parti dell’album Bugatti sfodera gli artigli come ha imparato a fare in tanti anni, tra abbondanti distorsioni da alternative rock anni 2000 in stile Verdena in Io sto da Piero (...finché sopravvivo) e ballate scritte divinamente e arrangiate con esperienza e gusto artistico (Alice è la perla dell’album). Gli arrangiamenti non sono da cantautore che se ne va in giro con la sua chitarrina. La realizzazione dei brani è filtrata da un gusto artistico molto personale e sempre assolutamente riconoscibile. Si tratta di pezzi che anche quando virano sul melodico lo fanno con gusto. Senza pressioni addosso, Bugatti ha imparato a parlare di sé in modo rilassato e lo fa divertendosi in Romantico e Mercoledì. E, anche se gli innesti ritmici sono preziosi e raffinati in tutto il disco (la batteria è brillante e si mette sempre a disposizione delle canzoni), si nota che non è l’album di una band ma il disco di un singolo artista che ha molto da dire. In questo, Marco Bugatti ricorda un po’ l’altro Bugatti, Cristian, cioè Bugo. La similitudine tra i due, il loro modo di giocare con il rock in italiano, è evidente in più brani: i già citati Romantico e Mercoledì e soprattutto l’alternativa e punkeggiante Che lavoro fa Diana?, in stile Bugo già a partire dal titolo. Il pubblico di Marco Bugatti c’è ancora: non si è mai veramente perso, è rimasto lì ad aspettare qualcosa di nuovo sul fronte Grenouille.  Qualcosa che sotto pressione non è mai arrivato ma che arriva adesso, con calma, con tempi nuovi e che in totale libertà può colpire più profondamente della vecchia band. Ecco quindi che in ambito diverso, in ambito cantautorale, Marco Bugatti tira fuori questa perla che diventa la cosa più interessante e ricercata ascoltata in questi primi mesi dell’anno. Marco Maresca



Intervista a Marco Bugatti
Siamo alla fine del 2012. C'erano i Grenouille con l'album Il mondo libero. Suonavate da tutte le parti e tutte le riviste di settore parlavano di voi. Stavate per diventare un nome grosso. Poi cos'è successo?
Mi ricordo che ai tempi di Saltando dentro al fuoco nell'ambiente musicale si parlava di noi come della prossima band che ce l'avrebbe fatta. Ci paragonavano spesso a gruppi come Afterhours o Marlene Kuntz, il che per noi era un grande onore. Quello che è successo a livello promozionale è presto detto: il successo (quello vero) non è mai arrivato. Abbiamo rotto con l'etichetta, soprattutto per mia volontà ed abbiamo registrato un disco autoprodotto che non ha avuto lo stesso successo e la stessa attenzione del primo. I nostri concerti, nonostante tutte le critiche positive in rete, erano comunque spesso semi-vuoti. Dal punto di vista personale, invece, sono semplicemente esplose alcune tensioni tra i componenti del gruppo che hanno portato, alla lunga, alla fine del progetto. Io sono rimasto fermo per più di un anno, e poi mi sono convinto a registrare questo disco da solo, all'inizio quasi per gioco, poi, dato che stava venendo un ottimo disco, ho deciso di autofinanziarmi con Musicraiser e investire anche in un video e nella promozione.

Dopo numerosi ascolti non riesco a capire se Vero è una donna (diminutivo di Veronica) o se si riferisce a te. Cosa vuoi dire in quella canzone?
Il testo di quella canzone è scritto sotto forma di poesia e vorrebbe esprimere la sensazione di svegliarsi dopo anni da una lunga illusione, da un lungo sonno, dopo aver inseguito qualcosa che, purtroppo, non era "vero". Qualcosa che per anni può sembrarti vero ma che in realtà non lo è perché non lo è mai stato. Ho scritto quel testo dopo la fine dei Grenouiille, in un periodo in cui anche la storia con la mia ragazza di allora stava finendo. La "luce del mattino" del testo è accorgersi che la fine di qualcosa può essere anche un nuovo inizio, come un risveglio da un brutto sogno. Le “calamite” siamo io e la mia ragazza di allora, intese come calamite dello stesso polo, che si respingono fra di loro. In quella canzone, anche se l'argomento può sembrare triste, ci sono forti dosi di speranza e consapevolezza, perché quello che non ci uccide, dopotutto, ci rende più forti. Nella seconda strofa, invece, parlo di un tradimento, di quanto possa fare male, e di come abbia imparato a difendermi. C'è anche un'immagine che simboleggia quanto possano renderci autodistruttivi i traumi subiti nell'infanzia. Il "dio ferito" è, appunto, un bambino che viene in qualche modo traumatizzato e che si porta quel trauma nell'età adulta e che, guardandosi allo specchio, vede il nemico di se stesso.

Mercoledì mi ricorda un po' il Vasco dei primi tempi. Non saprei dirti una canzone in particolare, forse Fegato spappolato, ma un po' tutte le prime. E’ proprio di quel genere lì. Ti sei ispirato a Vasco? Te lo chiedo perché non mi sembra la prima volta. Anche nei Grenouille avevo quella sensazione.
Forse ti ricorda Lunedì di Vasco... Comunque sì, mi sono ispirato proprio a lui, e lo cito sia nel titolo, sia nel finale quando dico "vorrei anch'io una vita come Steve McQueen, ma non è neanche mercoledì". Io ho schifato Vasco per tantissimi anni, come spesso fa chi si reputa troppo "alternativo", finché il mio caro amico Boris, tanto tempo fa, per il mio compleanno, senza che gli chiedessi niente, mi registrò delle cassettine con tutti i primi dischi, da …Ma cosa vuoi che sia una canzone… a Cosa succede in città. Sono letteralmente impazzito. Vasco era punk! Era qualcosa di incredibile e da allora lo ascolto spesso e lo considero uno dei più grandi cantautori e musicisti rock di sempre. Il mio modo di scrivere all'inizio era molto ermetico e utilizzavo molte immagini accostate ad effetto senza necessariamente dar loro un filo logico. Con il passare degli anni è stato per me naturale ricercare un metodo di scrittura che si avvicinasse a quello di Vasco, in cui le frasi scivolano via lisce, naturali, come se il testo della canzone fosse un discorso in un sabato pomeriggio qualunque tra te e il tuo migliore amico o la tua ragazza. Se provi a scrivere su un foglio il testo della canzone Romantico ti renderai conto che è un discorso qualunque fatto tra me e una ragazza.

La fabbrica sembra raccontare una storia di un'epoca passata, quella in cui l'Italia si stava industrializzando, ma ci sono riferimenti col presente? Con qualche fabbrica in particolare?
In realtà no. Per La fabbrica avevo questo giro folk americano, che il mio amico Rudolf Minuto aveva suonato nel suo disco, con un testo in inglese, che non capivo bene, ma che mi sembrava parlasse di una ferrovia. In quel periodo stavo cercando di scrivere testi su giri di altri e Rudolf mi aveva dato il permesso di farlo con le canzoni del suo disco. Vero, ad esempio, viene proprio da lì: era una bellissima strumentale a cui ho aggiunto testo, basso e batteria. Mi piaceva molto quel giro e un giorno mi sono detto: che storia folk potrei mai scrivere in cui ci può stare una ferrovia (che fa, effettivamente, molto vecchio west)? Penso che la storia più nazionalpopolare che si possa raccontare, con una ferrovia di mezzo, sia quella dell'industrializzazione italiana del dopoguerra, in cui centinaia di padri di famiglia si trasferivano al Nord, a volte lasciando là moglie e figli, per emigrare a Milano o a Torino, per “provare a far la vita della fabbrica". La "polvere" della seconda strofa è un oscuro presagio delle malattie professionali che si andranno a sviluppare negli anni successivi, grazie alle scarse misure di prevenzione e a materiali come l'amianto, che rilascia una polvere sottilissima che finisce nei polmoni. Mio nonno paterno lavorava in fabbrica al reparto verniciature ed è morto di cancro quando mia madre era ancora molto piccola. Nel finale, nella prima stesura del testo, accennavo anche all'avvento delle Brigate Rosse e dei movimenti operai armati degli anni ‘70, facendo dire al protagonista che "c'è qualcuno che vuol convincerci a sparare", ma poi mi è sembrata troppo forte come chiusura e l'ho cambiata. Per il resto, penso che siamo sempre stati un popolo di migranti: una volta partivamo per l'America, la mia generazione ora parte per la Germania o per l'Australia. Da questo punto di vista non penso che ci sia, purtroppo, storia più attuale di questa.

Alice ha delle parole bellissime, mi piace come sembri osservare la situazione dall'esterno. Dalle parole "tuo padre ti ha chiamata col nome di una radio della metà degli anni '70" sembra che tu conosca la storia di questa famiglia dal di fuori. Questa Radio Alice esiste veramente? E anche la donna narrata nella canzone?
Sì, certamente, esistono entrambe. Radio Alice è una storica radio libera, nata in una soffitta a Bologna nella metà degli anni '70, che prendeva il nome appunto dalla protagonista del libro di Carroll. In quegli anni, per un breve periodo, prima che le frequenze radio venissero lottizzate c'erano tantissime radio libere indipendenti che trasmettevano musica magari straniera o che mandavano in onda dibattiti politici. Anche Vasco è famoso per aver fatto il disco jockey in una radio simile. Ho conosciuto la ragazza della canzone quando suonavo ancora al Moonshine. Era veramente una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all'altro. Mi ricordo che quella sera io suonavo e lei intanto (bada bene, non l'avevo mai vista prima) mi versava dei chupitos in bocca. A fine serata, in condizioni che non ti dico, mi ricordo che ha litigato violentemente con i suoi amici e, non so per quale strano susseguirsi di eventi, non me lo chiedere, è venuta a casa con noi. Abbiamo dormito io e lei in macchina di un mio amico e il giorno dopo l'abbiamo riaccompagnata a Bologna. Una cosa assurda, ti giuro. Quando andai a trovarla a Bologna lei mi raccontò che suo padre l'aveva chiamata così perché era stato uno dei soci fondatori di radio Alice. Fu lì che io sentii per la prima volta il nome di questa radio. Solo dopo, documentandomi, capii che si trattava di una radio storica. Alice, però, non mi sembrava emotivamente molto stabile e mi sembrava che i suoi genitori non la seguissero un granché. Aveva a disposizione sua e della sorellina questa casa per niente arredata, con i vestiti ammucchiati in un angolo, e per i tre giorni che stetti da lei andammo a trovare un sacco di gente ma suo padre lo vidi soltanto una volta da lontano per dieci minuti. Nella canzone parlo di Alice e mi immagino il rapporto con i suoi genitori, paragonandolo all'infrangersi degli ideali rivoluzionari degli anni ‘70. Mi immagino suo padre e sua madre progettare un mondo diverso, utopistico, in cui crescere le loro bambine con degli ideali nuovi, in una società più giusta... E li immagino fallire, perché le utopie piacciono a tutti, sono molto affascinanti ma, purtroppo, "questo non è il paese delle meraviglie".

Che lavoro fa Diana? A chi è rivolta la critica, alla fine? A lei o a chi la giudica? E perché si pronuncia all'inglese?
Quando ho scritto questo pezzo mi sono ripromesso di non svelare mai che lavoro fa in Diana in realtà. Che lavoro fa Diana? non vuol essere una critica a nessuno, né al personaggio della canzone né alla società. Che lavoro fa Diana? è soltanto una storia troppo rock and roll che non potevo non raccontare in un pezzo punk. C'è scritto tutto nella canzone. Ti giuro, davvero, un personaggio allucinante...

(Si ringrazia Marco Bugatti per la gentile intervista)

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