25 ottobre 2015

Il nuovo disco del Teatro degli orrori, tra prudenti ritorni alle origini e sermoni di Capovilla

A tre anni di distanza da Il mondo nuovo, disco accolto abbastanza freddamente dal pubblico, Il Teatro Degli Orrori recupera un Capovilla reduce da un disastroso progetto solista e lo rimette alle redini di questo nuovo omonimo album.All’uscita del primo singolo su Facebook, Lavorare stanca, il popolo della rete ha osannato il brano, definendolo un “grandioso e atteso ritorno alle origini”.Io mi ritrovo a storcere un po’ il naso. Pur essendo innegabile che le sonorità siano molto affini a quelle di A sangue freddo,  secondo disco capolavoro della band, il testo e le armonizzazioni lasciano a desiderare. Per farla breve, io preferisco di gran lunga il Capovilla che canta a cuore aperto, e non quello che fa pipponi di 4 minuti composti di pancia. E purtroppo di canzoni scritte di pancia questo disco è pieno.
Su tutte Genova e Benzodiazepina che, pur trattando tematiche complesse e delicate come il G8 di Genova e l’abuso di psicofarmaci, non colpiscono e non lasciano il segno, private di quella poesia e immedesimazione che hanno contraddistinto i primi due album della band. In questi due specifici casi la colpa è anche dei musicisti che non riescono a ricreare la giusta alchimia e tessere la ragnatela sonora necessaria a parlare di tematiche così importanti.Sentimenti inconfessabili, carica di ironia – finalmente! – sull’ipocrisia delle persone di fronte alla morte, inserisce alla fine del pezzo un parlato totalmente inutile e fastidioso. Bella e coinvolgente invece la musica.Ne Il lungo sonno Capovilla ricomincia a farci il sermone sulla deriva destroide del PD. Tutte cose che, ahimé, chi non vive sulla Luna già ben sa.Al contrario di quanto detto sopra, centrano il pieno il bersaglio Slint, brano duro, violento, sudato e sentito, e Una donna, in assoluto il miglio pezzo del disco che affronta con serietà, poesia, rabbia e amore il tema dell’immigrazione visto con gli occhi delle donne.Un disco riuscito a metà, insomma, che non mi sento di stroncare in pieno perché ricco di spunti musicali e ritmici – soprattutto ritmici - molto interessanti, e che segna un passo in avanti de Il Teatro Degli Orrori verso la riscoperta di se stessi.Un ibrido un po’ insipido, perso tra l’immediatezza sonora di A sangue freddo e le difficoltà comunicative de Il mondo nuovo, ma che potrebbe riservare qualche sorpresa durante i live. Giuseppe Musto

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