14 maggio 2015

Bad Love Experience "a nudo" prima del secret show a Vigevano

Il 9 maggio i Bad Love Experience sono stati ospiti di un nostro secret show in uno spazio molto speciale a Vigevano Abbiamo approfittato della serata per un'intervista alla band di Livorno.

Partiamo dal nuovo album, e in particolare dal corto che ne fa un po' la summa: come vi è venuta questa idea? 
L'idea era quella di mettere la musica in immagine, cercare di raccontare le canzoni attraverso qualcosa di visivo che simbolizzasse quelli che sono i contenuti del disco. La sfida era questa, e pensiamo di essere riusciti a realizzare quello che volevamo.


La traccia d'apertura, Inner animal, con la sua atmosfera anni 70 funziona ottimamente come introduzione. Ci sono state influenze cinematografiche dietro alle vostre scelte nella realizzazione? 
No le immagini sono nate in base a quello che ci trasmettevano le canzoni, non abbiamo seguito un qualche modello. Tutto è nato da un soggetto che io (Valerio ndr.) avevo scritto, legato a quello che raccontano i testi, e poi da lì ci siamo trovati continuativamente per delle sessioni di brainstorming per buttare giù idee e vedere come poter rappresentare efficacemente ogni brano, cercando di rendergli giustizia e non fare una cosa campata per aria.

Soprattutto nell'ultimo brano, Believe nothing, si sente una maggiore incisività della componente elettronica. E' una cosa che avevate pianificato o è stata una naturale conseguenza della vostra esplorazione sonora, magari figlia anche dell'ingresso nella formazione di Ivan Rossi? 
L'influenza elettronica era forse una delle poche cose che avevamo pianificato per questo nuovo album. Ci siamo contaminati con questo tipo di musica a livello di ascolti negli ultimi anni, e lavorando a livello digitale già avevamo un po' sperimentato in passato fra plug-in e batterie elettroniche, per cui diciamo che è stato un po' un connubio fra una pianificazione e la spontaneità del fare musica che viene per forza di cose influenzata da quello che ti piace. L'inserimento di Ivan Rossi ha sicuramente aiutato da questo punto di vista, è una cosa che è andata di pari passo col suo ingresso, lui è un ingegnere del suono che ha lavorato molto sulla sintesi analogica e grazie alla sua abilità coi sintetizzatori siamo riusciti a fare un'elettronica “suonata”, non con suoni basati su campionamenti ma bensì ricreati da lui. E' stata una bela esperienza.

Anche il vostro precedente album Pacifico aveva molte influenze, soprattutto a livello geografico visto che fra le fisarmoniche di Dream eater e Cotton candy che creano un'atmosfera a metà fra le vie di Parigi ed i Balcani e le suggestioni sudamericane di Samba to hell sembra quasi che vi siate imbarcati in un ideale giro del mondo in musica. Era questa l'idea di partenza, visto anche il titolo che omaggia l'oceano? 
Pacifico era per noi proprio un oceano musicale, ben rappresentato dall'immagine che abbiamo scelto come copertina. L'album era un po' come una città in cui ci è piaciuto perderci, non è stata minimamente pianificata l'idea di mettere brani così ad ampio raggio: in quel periodo facevamo molte jam session in sala prove e le idee venivano fuori in maniera veloce e molto variegata, inoltre avevamo cominciato a provare strumenti nuovi come l'ukulele che aveva comprato il nostro bassista Emanuele ed avevamo la smania di inserirli tutti. La sfida era quella di creare qualcosa di riconoscibile come nostro pur inserendo tutte queste sonorità nuove, ci siamo fatti anche aiutare da tanti altri musicisti per la sua realizzazione. Il tema del viaggio è stato comunque un motore molto importante.

Andando ancora più a ritroso vi volevo chiedere come è nata l'opportunità di inserire tre vostri brani dall'album Rainy days nella colonna sonora de La prima cosa bella di Paolo Virzì.

L'avevamo conosciuto l'estate prima della realizzazione del film, mentre stava realizzando un documentario su un cantautore della nostra città che si chiama Bobo Rondelli, visto che ci aveva intervistato assieme ad altre band della scena livornese per avere qualche opinione da parte dei musicisti della città. Ne è nata una conoscenza che ci ha portato ad apparire nel film nei panni di una band anni 70, visto che il nostro stile musicale era affine a quel periodo, e durante le riprese gli lasciammo il disco sul set. Finite le riprese ed il montaggio ci chiamarono per dirci che avevano ascoltato il disco e volevano inserire alcuni brani nella colonna sonora, ed è stata una bella soddisfazione quando abbiamo saputo anche della nomination per i David di Donatello.

Il brano scelto per la candidatura è stato 21st century boy: era anche per voi il migliore dei tre che avete messo a disposizione per il film? 
Penso di sì. Era stato comunque il singolo di lancio del nostro disco, e inoltre è stato inserito da Virzì in uno dei momenti più forti e rilevanti del film. Non me l'hanno mai fatta questa domanda, ma pensandoci un attimo direi che è stata la scelta giusta! (Ridono) Vedendo il film da “esterno” penso che anche noi saremmo stati colpiti principalmente da quella.

In tutti i vostri dischi avete collaborato con un produttore di Milwaukee, Justin Perkins. Come siete arrivati a decidere di trovare un produttore oltreoceano? E' una questione di sensibilità sonora?
Come produttore ha fatto con noi Rainy days e Pacifico, quest'ultimo anche assieme ad Ivan. L'abbiamo conosciuto in maniera casuale: mentre eravamo in casa di un amico che aveva prodotto il nostro primo disco omonimo gli abbiamo parlato della nostra ricerca di un produttore per il nuovo album, e lui ci ha passato il vinile di una band che si chiama Yesterday kids di Milwaukee. Rimanemmo impressionati dal fatto che era stato registrato completamente dal bassista, che si era occupato anche degli arrangiamenti, e lì ci venne l'idea di contattare un americano per farci registrare e produrre il disco. Lo contattammo via mail e lui ci rispose gentilmente di fargli sentire qualcosa, e che se fosse stato possibile avrebbe collaborato volentieri...e s'è fatto! L'approccio da rock americano nella produzione di Rainy days si sente molto ed è quello che ci ha caratterizzato in quel periodo, è stato un incontro fra il nostro farlo da italiani ed il suo modo di sentirlo da americano. Ci è servito molto anche su cose come la pronuncia, sul modo di lavorare ostinato e produttivo. Gli Stati Uniti hanno un tale background di musicisti che sicuramente può avere una sensibilità maggiore verso un certo tipo di musica, è sempre un po' casuale trovare la persona giusta per lavora sul tuo disco: Justin è sicuramente riuscito a tirar fuori il meglio nei due dischi in cui ci ha accompagnato come produttore.

Ho visto che avete partecipato al progetto Song Reader di Beck con una vostra versione di Eyes that says I love you. Com'è stata l'esperienza, e cosa pensate della versione che ne ha fatto successivamente Jarvis Cocker?
Sinceramente non l'abbiamo sentita, peccato non sia stata scelta la nostra però! (Ridono) E' stata una bella esperienza, abbiamo collaborato con un sacco di musicisti per realizzarla ed aveva un arrangiamento notevole, siamo contenti di quella canzone ma spiace che alla fine non abbia avuto modo di avere grande risalto. E' stato il frutto di un qualcosa che era sì Bad love experience ma allo stesso tempo era anche un lavoro collettivo fra una ventina di persone. L'idea di base è partita da Ivan, che ha prodotto anche i nostri ultimi due album, e che aveva seguito tutto il progetto di Beck comprando il libro con gli spartiti: abbiamo scelto Eyes that says I love you assieme a Beppe Scardino, un bravissimo sassofonista che fa parte della scena jazz italiana che ha lavorato con noi, e pian piano che andavamo avanti nell'elaborazione si sono aggiunti sempre più amici, tutti lì a prestare la loro energia per un qualcosa che era già scritto ma che lasciava molto spazio all'improvvisazione, visto che alla fine le uniche regole “imposte” da Beck erano la linea vocale, una linea di piano ed il tempo. La soddisfazione per la realizzazione rimane al di là del poco riscontro ricevuto, anche se so che la canzone è finita su un blog americano dove è stata segnalata come una delle versioni migliori del brano...qualche soddisfazione ce la siamo tolta insomma, anche se da italiani è sempre difficile proporsi oltreoceano.

Rimanendo sul tema estero sono curioso di sapere le vostre impressioni su come ci si sente a suonare al di fuori del nostro paese, e che tipo di accoglienza si trova.
Abbiamo girato un po' in Europa, da Francia ed Inghilterra a paesi dell'est come Russia, Lituania, Estonia e Lettonia, ed è un'esperienza formativa ed anche coesiva per il gruppo. Abbiamo notato che il pubblico straniero ti ascolta ed interagisce di più, e capiscono anche di più quello che canti. E' una questione di connessione direi, è gente cresciuta con l'idea che sia importante promuovere la cultura e non soltanto uscire a sballarsi per cui, quando gli suoni di fronte, pensano che se sei lì è perché qualcosa da dire ce l'hai e se ne può anche imparare. Qui non c'è più un bacino di utenza con tutta questa voglia di ascoltare, ben vengano allora realtà piccole ma con una dose di attenzione concentrata sulla musica come possono essere appunto gli house concert. Ovvio che a livello di business il discorso è diverso, ma sono strade che realtà come le nostre devono percorrere se non vogliono scomparire perché se non fai parte di quelle dieci-quindici band che riempiono i locali fai veramente fatica...non esiste più una fascia media, o meglio non ci sono più locali che possono permettersi di campare proponendo concerti di band come noi o tantissime altre realtà. Bisogna ripartire dal basso insomma, è molto stimolante...ed è anche bello suonare ad orari umani, visto che nei locali i concerti iniziano a notte fonda mentre in Inghilterra si suona alle otto di sera! (Ridono)

Pacifico era uscito per Black Candy, ora invece avete deciso di autoprodurvi per questo Believe nothing. A cosa è dovuta questa scelta?
E' collegato a quanto detto prima...il supporto dell'etichetta è valido fino a quando ci sono sintonia di intenti e disponibilità per fare quello che si vuol fare, noi siamo una band piuttosto estrosa ed a cui piace sperimentare e Black Candy è invece una realtà che non poteva metterci a disposizione più di quanto già avevamo ottenuto. Abbiamo deciso così di lanciare la nostra etichetta (Inner Animal ndr.), e in collaborazione con Ivan e la sua etichetta (Retroazione Compagnie Fonografiche ndr.) abbiamo deciso di ripartire dal basso, proponendo la nostra idea di fare musica. E' una scelta di amor proprio, il voler portare avanti il proprio modo di fare le cose collaborando ed aiutandoci anche con le altre band che fanno parte della scena musicale della zona. L'entità dell'etichetta ora non ha più molto senso, a meno che tu non ne trovi una che abbia la voglia e le possibilità di investire su di te perché altrimenti ti ritrovi a pagare lo studio, pagare a metà la realizzazione dei video...Black Candy ci dava il suo sostegno, ma questo significava anche rapportarsi al discorso guadagni-vendite in una maniera non paritaria. C'erano più limitazioni che opportunità quindi meglio fare le cose da soli, è dura ma così si fa quel che si può fare senza andare oltre...ed è anche più semplice fare i conti alla fine!

Intervista di Stefano Ficagna




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