2 febbraio 2015

Mezzafemmina: una pastasciutta pre-concerto e due chiacchiere con Gianluca Conte

Abbiamo fatto due chiacchiere con Gianluca Conte, in arte Mezzafemmina, davanti ad un bel piatto di pasta nel salotto di casa del secret concert. Questo è ciò che ne è uscito. Buona lettura!


Da dove arriva il nome Mazzafemmina?
Mezzafemmina arriva dal mio bisnonno. Io sono originario di un paesino ai confini fra Puglia e Campania dove si usa molto il soprannome di famiglia, e quello della mia era appunto Mezzafemmina. Era stato affibbiato al mio bisnonno ai tempi del fascismo perché era solito aiutare nei lavori di casa, e siccome i soprannomi vengono dati sempre con un intento ironico o addirittura sarcastico è nato Mezzafemmina. Quando ho iniziato col progetto solista non volevo chiamarmi col mio vero nome (Gianluca Conte, NdR), anche perché sono sempre stato abituato ad essere chiamato per soprannome sin dai tempi delle elementari, e ho deciso di prendere questo: è un modo di mantenere vivo il legame con la mia terra, che sento molto, ed ammetto che ha anche quella dose di ambiguità che lo rende facile da ricordare.

Prima di metterti “in proprio” sei passato dall'esperienza coi Melanie Efrem: come mai hai deciso di intraprendere la carriera solista? E' una dimensione che senti più tua?
In realtà non ho deciso da solo... Si è arrivati al punto in cui ci siamo trovati seduti ad un tavolino, nel vero senso della parola, e alcuni di noi hanno deciso di fare altro portandoci di fatto allo scioglimento. Non volendo fermarmi ho cominciato subito a pensare a qualcosa, ed il progetto solista è stata la logica conseguenza. Non so dire se è la mia strada: di sicuro posso esprimermi meglio, senza compromessi o mediazioni che in un gruppo per forza di cose ci sono, però il rock un po' più sudato mi manca... Infatti già questo disco è più energico rispetto al primo, come fosse in parte un ritorno a quelle atmosfere più cupe ed aggressive che avevano i Melanie Efrem.

Sia nel precedente disco che in questo Un giorno da leone ci sono molte collaborazioni, particolarmente di musicisti torinesi. E' così forte il legame fra gli artisti nella scena musicale del capoluogo piemontese?
Sicuramente sì. Federico dei Nadàr Solo ci ha dato una mano agli inizi, coi provini, coi Perturbazione invece c'è un rapporto che si è sviluppato con gli anni fin dai tempi dei Melanie Efrem, con cui avevamo fatto un concerto con le formazioni mischiate in sette sul palco, tanto che si può dire che mi abbiano scoperto loro. Artisticamente mi hanno anche cresciuto visto che li ho conosciuti quando avevo circa ventitré anni, e sono stato contento di quello che gli è successo l'anno scorso e del loro successo come se fosse accaduto a me. Mi piace moltissimo collaborare, farei un disco con collaborazioni ad ogni pezzo, e soprattutto con artisti che non c'entrano apparentemente niente con me: ad esempio  ho collaborato molto con un gruppo electro-punk di Grugliasco, il paese dove abito, e nell'ultimo disco c'è anche un pezzo con un rapper romano che si chiama Chef Ragoo.

Proprio la collaborazione con quest'ultimo mi interessava molto: come siete arrivati ad incidere insieme Il giorno dopo?
E' nato tutto dal fatto che ho registrato il disco a Roma da Giorgio Baldi, fra le altre cose chitarrista di Max Gazzè, e un giorno sono passati in studio Chef ed il batterista dei Persiana Jones mentre stavano pianificando un gruppo punk da tirare su insieme: era proprio il giorno in cui ci stavamo scervellando su un pezzo che non ci veniva fuori a dovere, e un po' come battuta Giorgio mi ha proposto di collaborare con lui. Io era da molto che volevo fare questo tipo di collaborazione, sono molto affascinato dal rap e secondo me per chi prova piacere nello scrivere testi è un genere che rimane un punto di riferimento, così ne abbiamo parlato con lui e vedendo che anche da parte sua c'era lo stesso interesse ci siamo messi al lavoro. Il pezzo è nato nel giro di pochissimo, riscrivendo anche il testo che nasce dal tema della dipendenza da internet, e ne è nata anche una bella amicizia.

Ho letto che lavori come educatore in una comunità di recupero per tossicodipendenti: quanto del tuo lavoro rientra nella tua musica, visto che i temi dei tuoi brani sono sempre molto impegnati?
In realtà non faccio più quel lavoro, la biografia sul sito è vecchia e dovrei cambiarla, ma faccio comunque un lavoro a stretto contatto coi tossicodipendenti. Quanto influisca non lo so, testi di questo tipo li scrivevo anche prima di fare quel lavoro e penso sia dovuto ad una predisposizione mia più che dalla mia occupazione. Farlo però mi ha messo a stretto contatto con storie che mi aiutano a stare coi piedi per terra, riuscendo a farmi evitare un certo tipo di divismo inutile che può scaturire su un palco visto che poi una volta sceso sono come tutti gli altri, e visto che le canzoni nascono dalle storie un po' di ispirazione mi è arrivata anche da lì: non ho mai fatto però canzoni sul mio lavoro o su storie incentrate su quel mondo, anche per distaccarmi un po'.


Ho trovato molti testi interessanti nel tuo ultimo album, come ad esempio L'Italia non è. Quella che emerge dal testo è la tua esatta visione del nostro paese?
Ad essere sincero il testo è nato facendo un collage di titoli sull'Italia di giornali stranieri, ad esempio la frase “L'Italia non è un paese per donne” con cui inizia la canzone è tratta da un titolo de L'Internazionale, quindi è un testo che mette in luce un punto di vista di altri che però io condivido. In tanti, quando ho iniziato a parlarne coi miei collaboratori, l'hanno vista come una canzone un po' retorica ed eccessivamente pessimistica, però io penso che nel nostro paese sono successe negli ultimi tempi cose così surreali che da nessun altra parte sarebbero potute accadere... Già solo il fatto che ci siano stati ministri della Lega Nord che è un partito che non crede nell'unità nazionale mi pare un paradosso, motivo per cui chiudo la canzone dicendo che “L'Italia non è un paese”. Non mi pare un testo così eccessivo a conti fatti, e comunque viene cantata come se fosse una filastrocca, con un sorriso ironico sulle labbra che cerco di mantenere in quasi tutte le mie canzoni... Un po' come il giullare che si poteva permettere di prendere per il naso anche il re.

Oltre a prendertela con le divisioni e storture dell'Italia hai dedicato un pezzo anche alla “moda” delle giornate dedicate a qualsivoglia argomento, da quella contro la violenza sulle donne a quella contro l'inquinamento passando per altre mille cause. Come ti è venuta l'idea per questa 364 giorni di oblio?
L'idea mi è venuta anni fa nel periodo in cui era stato fatto il Live Earth dopo aver sentito che se non sbaglio i Morcheeba o chi per essi si erano rifiutati di partecipare, o avevano partecipato criticando però l'evento, non ricordo bene, dichiarando fondamentalmente che era un controsenso per una giornata contro l'inquinamento mettere in piede un carrozzone altamente inquinante come quello che era stato allestito. Questa cosa mi aveva fatto pensare su quanto a volte queste manifestazioni sembrino fatte più per il narcisismo di chi le organizza che non per il reale interesse ad una causa, e sembra anche un modo per lavarsi facilmente la coscienza, come il Je Suis Charlie di pochi giorni fa... Io non lo sapevo prima di quei fatti cosa fosse Charlie Hebdo, e mi sembrava ipocrita mettermi a sventolare un simile vessillo dopo senza avere le informazioni di base per farlo. E' uno di quei testi che ho fatto fatica a mettere giù perché non era facile dargli anche una giusta musicalità visto il tema, ma a lavoro concluso sono rimasto molto soddisfatto.

Due canzoni dell'album, Mammasantissima e Piett' Tonna, rappresentano idealmente ed in maniera estremamente diversa il legame con la tua terra d'origine. Immagino sia molto forte il legame con le tue radici territoriali...
Mammasantissima è una canzone che parla della 'ndrangheta, e mi è venuta in mente leggendo il libro Mafia Export, dove si faceva luce sul fatto che gente poco acculturata come i mafiosi fosse riuscita ad inventare, fra virgolette, la globalizzazione, visto che sono stati i primi ad esportare e rendere globale qualcosa. Piett' Tonna è una canzone popolare tramandata oralmente, cantata dalle contadine nei campi della mia terra per alleviare la fatica, e l'ho conosciuta tramite un documentario su Rocchetta Sant'Antonio (il paese dei nonni, NdR) in cui fra i vari contributi c'era quello di questa anziana signora che insegna ai bambini le canzoni della tradizione popolare. Quando l'ho sentita mi ha molto colpito perché ha una melodia ed una metrica che rimane molto in testa, e nonostante fossi scettico sul fatto che potesse venire capita e recepita da coloro che dovevano collaborare con me alla stesura del disco devo dire che è stato uno dei pezzi alla fine più apprezzati. E' la storia della prostituta più desiderata del paese che un giorno rimane incinta, gettando nello sconforto coloro che per forza di cose non potranno più avvalersi delle sue prestazioni e nell'ansia il paese intero, con tutti che vogliono scoprire chi è il padre.

Hai già avuto esperienze simili agli house concert? Pensi che sia una dimensione che ben si sposa alla tua musica?
In casa mi sembra di no, ho avuto una situazione simile suonando nel cortile interno di un caseggiato a Firenze ed ho aderito alla simpatica iniziativa di due ragazzi torinesi dei concerti dal balconcino, che consiste nell'organizzare sul balcone di una palazzina vecchia, di quelle coi ballatoi,  un concerto ogni domenica... Ne hanno parlato su La Stampa e altri giornali, anche per le lamentele di vicini ed amministratore, ma loro tirano avanti per fortuna. Mi affascina come situazione perché secondo me i concerti andrebbero fatti senza palco, visto che crea delle proiezioni esagerate verso chi ci sta sopra, e infatti io ogni tanto i concerti li finisco sotto fra il pubblico... Quindi già solo il fatto di essere sullo stesso livello mi piace molto! Intervista a cura di Stefano Ficagna

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