5 dicembre 2014

Intervista ai MasCara, da Lupi a Tutti usciamo di casa, dalla cover di Guerra a quella Idroscalo

Poco più di una dozzina di domande per cogliere il senso di tutta la produzione dei MasCara. L'EP d'esordio L'amore e la filosofia, l'attenzione da parte di Universal e poi il ritorno all'autoproduzione. I videoclip, una cover dei Litfiba, una di Edipo. La volontà di imporsi, la necessità di rimanere se stessi ma senza autoindulgenza, e tanto altro.


Partiamo da una curiosità: come mai fra tanti pezzi dei Litfiba avete scelto di coverizzare proprio Guerra?

In primis perchè è un pezzo nato durante una prova, stavo accennando qualcosa alla chitarra in un momento di cazzeggio e mi sono accorto che quello che stavo facendo ricordava quel brano. Ci hanno paragonato spesso ai Litfiba di quegli anni, ma noi siamo più figli degli anni 90 e quindi di pezzi come Regina di cuori: in ogni caso il pezzo funzionava, e quindi è stato naturale portarlo avanti.

I nomi Isaac e Laica mi lasciano delle suggestioni da fantascienza: è da quell'immaginario che li avete tratti?

L'idea era proprio quella. Negli ultimi tempi vedo da parte delle band molto attaccamento al reale, la necessità di raccontare storie di vita credibili e che vedono o possono vedere coi propri occhi: io invece volevo raccontare una storia che non avesse appigli nel reale, partendo proprio dal nome dei protagonisti. Volevo un futuro che fosse plausibile ma non troppo fantascientifico, e da questa idea è nato poi tutto il concept del disco.

A proposito di concept: sia Lupi che il precedente Tutti usciamo di casa hanno un filo conduttore che lega tutti i brani fra di loro, pensate che si possa idealmente legare insieme in qualche modo tutta la vostra produzione fin dall'EP d'esordio L'amore e la filosofia?

Credo proprio di sì. Ragionandoci sopra ho realizzato di avere qualcosa di irrisolto coi cambiamenti, ed ogni brano che abbiamo scritto evoca in qualche modo il concetto del cambiare. Ogni pezzo lo vedo quindi come un tassello che ci porterà prima o poi ad un cambiamento completo, forse delle nostre vite. Inoltre tutto si è sviluppato in quell'arco di anni fra i 22 ed i 29-30, il periodo di maggiori cambiamenti dopo l'adolescenza...ogni tappa è stata quindi un'evoluzione di questo discorso, che io vedo come centrale in ciò che voglio raccontare. Questo si ripercuote anche sulla musica, visto che tutti e tre i lavori si differenziano molto come tinte sonore.

Proprio il cambiamento sonoro avvenuto in Lupi, con uno stile più aggressivo e diretto anche a livello vocale, mi incuriosiva. E' stato qualcosa di cercato o è una direzione che avete intrapreso come svolta naturale del vostro percorso sonoro?

Ogni disco è un passo ulteriore verso la ricerca della nostra vera identità. In questi anni ci siamo continuamente interrogati su chi siamo, condendo il nostro suono con cose che piacevano ad ognuno di noi, e pian piano stiamo cercando di arrivare alla nostra piena evoluzione. In Lupi eravamo più tesi, un po' arrabbiati per qualcosa che credevamo sarebbe successo e non è avvenuto in pieno, per cui abbiamo deciso che era il momento di tirar fuori i muscoli. E' nato anche in un momento particolare della mia vita, con parecchie cose successe in un breve periodo di tempo sia a livello familiare che affettivo, ed ho avuto un modo di reagire a tutto questo molto “notturno”, facendo lunghi viaggi in auto di notte, e parte di quel nero che si sente nel disco è dovuto proprio al fatto che è stato concepito perlopiù col favore delle tenebre. Il viaggio di Isaac, ad esempio, ha come ambientazione ideale qualcosa di paragonabile al film Drive.

In Falsa età dell'oro descrivete uno scenario quasi d'impotenza, il “vorrei ma non posso” di un giovane che vede nella ragazza in strada durante una manifestazione il simbolo di una lotta che si può fare ma che ancora non si è deciso a condividere. Vuole essere un brano specchio dei tempi, in cui le rivoluzioni si fanno troppo spesso solo da dietro ad uno schermo?

Assolutamente sì. Però io metto sempre davanti il racconto al messaggio, un po' come uno scrittore che ha sempre in mente l'impianto di ciò che scrive per fare in modo che il messaggio passi. Volevo reagire alle difficoltà attuali non per forza mettendo mano agli avvenimenti che accadono giornalmente, anche se l'ambientazione è tipica dei tempi che stiamo vivendo... Forse non fotografa proprio la realtà italiana quanto più i fermenti della zona araba, o quanto succede in Israele. La sfida era quella di mettermi nei panni di chi vede qualcosa del genere: è più facile raccontare qualcosa che abbiamo vissuto o ci hanno raccontato piuttosto che immaginare una realtà così lontana, e con questo metodo rimane sempre un gap fra quello che è realmente quella situazione e come la immaginiamo. Il pezzo rappresenta lo scontro fra l'impotenza e l'attività, senza però cercare la soluzione di questo scontro: se tu non hai le caratteristiche per affrontare un problema forse per la tua stessa sopravvivenza quell'immobilismo è la scelta più sensata, perché ognuno di noi sopravvive per come è fatto. Anche la fuga è una strategia di sopravvivenza, e per me è fondamentale capirlo e poterlo dire, perché non si è solo codardi o coraggiosi, categorie un po' romantiche, il fulcro è la sopravvivenza del proprio io, della propria personalità: se tu sopravvivi a te stesso e capisci come sei fatto sei già salvo, e questa era un po' l'idea di fondo.

In Cattedrali al neon evocate invece una sorta di perdita del proprio centro personale, parlando di “turbini di ego” e di “generazioni a cui serviva una scusa”. Si può definire un'analisi della perdita di valori a causa delle distrazioni della vita moderna?

A noi fanno dimenticare un sacco di cose, nel senso che ogni volta che c'è un problema si cerca di sostituirlo con un altro. Così è facile trovare scuse per non agire, rimaniamo fermi perché è inutile fare qualcosa per un problema visto che dobbiamo pensare anche a quell'altro... Siamo una generazione che non pensa e, soprattutto, a cui cercano di non far pensare al proprio futuro.

Mi viene un mente un monologo di Massimo Coppola in cui diceva che a furia di farci decidere su cazzate come gli ingredienti di un panino quando vai a mangiare fuori, il modo di montare i mobili o il fatto di fare in pratica il cassiere quando vai al bancomat finiamo per perdere di vista le cose veramente importanti...

E' un po' quelle che succede anche nel mondo della musica, dove abbiamo enormi possibilità di ascolto ma quello che ci fanno arrivare è sempre più o meno la stessa roba, e finiamo per ascoltare sempre gli stessi artisti. Un po' anche per una questione di impossibilità di arrivare veramente a tutto...è un po' come Facebook, che ti dà l'illusione di essere in contatto con tutti quando invece tendi a rimanere in contatto sempre con le stesse persone. Il senso di Cattedrali al neon alla fine si può riassumere in questo: ci danno sempre qualcosa con cui distrarci, ci pongono problemi reali come quello della droga in maniere che non portano a farci assumere la piena responsabilità di un simile gesto di evasione...perché lo stimolo di evadere dalla realtà è insito nella natura umana, e noi continuiamo a fregarci da soli a questa maniera. E' come quando Renzi ti mette 80 euro in busta paga per non farti pensare che ti sta rubando il futuro, perché ha capito che la gente oggi ragiona alla giornata e lui è l'uomo del giorno, non quello del futuro.

Voi venite da una zona, quella del varesotto, che ho sempre visto perlopiù legata al punk. E' ancora così o altre realtà oltre a voi stanno emergendo in generi diversi?

Ho notato che in questo periodo c'è un fiorire di ragionamenti diversi. Il punk ha funzionato in un certo periodo storico perché c'era molta gente appassionata che ha fatto funzionare il movimento, ma molto era dovuto anche al fatto che il punk californiano in quel momento era sulla cresta dell'onda: ora invece tutto è già stato fatto, e si fatica a trovare dei riferimenti in cui potersi riconoscere fra band differenti. La scena del varesotto è un cumulo di macerie dai colori differenti, pensando a band come Il Triangolo, Gouton Rouge, Canova e Go!, tutti gruppi che conosco personalmente, non ci sono riferimenti comuni. Ognuno è partito da un punto diverso sviluppando un proprio discorso musicale, e questo implica che non si può propriamente parlare di una “scena”. A Pesaro c'è una scena, ma è comunque piccola e formata da un ristretto e compatto numero di gruppi... Non ci sono neanche più locali che cercano di mantenere una programmazione musicale settoriale, se prendiamo come esempio il Circolone di Legnano è facile vedere come nella programmazione live si spazi fra generi totalmente differenti, spesso associandoli tutti sotto l'etichetta “indie” che ormai è una parola che vuol dire tutto e niente. Se un alieno arrivasse sulla terra adesso penserebbe che anche ad X-Factor si propone musica indie, visto che anche lì stanno arrivando un sacco di cantautori con la barba, vestiti alla moda del momento. Che è un po' il tentativo di svecchiarsi agli occhi di un pubblico che non può essere lo stesso di Sanremo, che esiste invece più per motivi editoriali ed ha una composizione ormai standardizzata, col classico esempio di band fuori dal coro sempre presente ed in cui gli eccessi vengono più dal gossip che dalla proposta musicale. Tornando alla domanda iniziale direi che la scena del varesotto è figlia di questi tempi, in cui è impossibile riunirsi sotto le vestigia di un unico movimento sonoro ma si cerca al massimo di supportarsi vicendevolmente basandosi sulla reciproca stima: perlopiù però rimaniamo tutti come orsi nelle proprie tane, concentrati su noi stessi, ed il non sfruttare le risorse che comunque ci sono è un po' la nostra condanna a morte.

Avete registrato tutti i vostri lavori con Matteo Cantaluppi: come è nato e come si è sviluppato questo rapporto di fiducia, anche alla luce dell'evoluzione sonora che avete avuto nel corso degli anni?

Noi come molte band siamo partiti scrivendo brani in cameretta, e ci abbiamo messo quasi tre anni per capire esattamente le nostre coordinate e quello che volevamo effettivamente fare. Ad un certo punto abbiamo deciso che dovevamo circoscrivere quello che avevamo, anche per non cadere nella continua tentazione di modificare i brani, e la decisione unanime è stata quella di fare qualcosa di professionale in uno studio di registrazione serio: grazie al nostro tastierista Simone siamo entrati in contatto con Matteo, suo insegnante in una scuola per fonici a Milano, lui si è appassionato al progetto e così siamo finiti a lavorare insieme. Il primo EP è stato una sorta di laboratorio, visto che Matteo ci ha fatto capire che non potevamo fare tutto quello che ci passava per la testa e che dovevamo dimostrare di avere un'identità ben precisa: Fiore del male, ad esempio, era un pezzo completamente diverso e totalmente elettronico, ed è cambiato grazie ai suoi consigli. In Tutti usciamo di casa invece questa libertà di sperimentare ci è stata concessa, perché avevamo già dimostrato a lui ed in primis a noi stessi di sapere quello che volevamo, e così anche gli eccessi diventavano una risorsa. Matteo dice sempre di essere il sesto MasCara, è una persona squisita che col tempo ci ha lasciato sempre più libertà: all'inizio ci ha insegnato come vivere lo studio, arrivando anche a farci capire quando è necessario sacrificare delle idee e dei preconcetti, per portarci a diventare consci di quello che volevamo fare, qualunque fosse poi lo studio dove lavoravamo o la gente con cui ci trovavamo ad interagire all'interno degli stessi. Ora quando ci chiede se siamo sicuri del suono di un determinato pezzo lo fa più come banco di prova per testare la nostra convinzione, ed in questo è una risorsa incredibile... Oltre ad essere un tecnico favoloso.

Tutti usciamo di casa era uscito per Eclectic Circus, con Lupi invece siete ritornati all'autoproduzione: come mai questa scelta?

E' stato semplicemente per un discorso di visioni diverse: la direzione che abbiamo preso a livello di suoni col nuovo album ha levato, secondo l'etichetta ed Universal, il potenziale pop di massa che il precedente disco aveva. Un potenziale oltretutto inconsapevole, visto che i due brani che sono diventati singoli, la title track e Un figlio lo sa, sono stati gli ultimi ad essere scritti ed andavano a coprire quella che secondo noi era una mancanza all'interno del disco a livello di sonorità. Molti addetti ai lavori hanno interpretato quei brani come il tentativo di arrivare alla canzone pop orecchiabile perfetta, mentre in realtà è stata una cosa casuale. Noi abbiamo lavorato molto sulla nostra identità, ai tempi del precedente album avevamo anche già sciolto il contratto con un'etichetta di Brescia per divergenze in fase di mixaggio, e ritrovarci con un interlocutore in più che cerca di valorizzare solo alcuni lati della nostra band e cerca di forzarci verso una data direzione lo viviamo come una censura. Siamo stati sempre una band pensante, e tutto questo pensare crea un castello difficile da penetrare da una persona che non c'è dentro e non capisce tutto il processo: dal di fuori si può vedere solo la scelta stilistica di un album come Lupi, mentre quella cattiveria di fondo che si sente è un qualcosa di nato naturalmente e non per fare per forza qualcosa di diverso da Tutti usciamo di casa. E' una necessità che si vede anche nei live, in cui cerchiamo di essere il più incisivi possibili, una scelta che abbiamo ponderato vedendo l'attenzione che suscitavano alcuni dei brani che utilizzavamo alla fine dei concerti del precedente tour: abbiamo fatto tesoro di quella lezione e l'abbiamo quindi riversata nella nostra musica. Diversamente da altre etichette che producono band per una vera convinzione nelle loro potenzialità noi con Eclectic Circus ci siamo ritrovati senza una comunione d'intenti, lavoravamo con la spada di Damocle in testa di un consenso che da parte loro non c'era e quindi lavoravamo male, ricercando un compromesso che snaturava i brani: abbiamo quindi deciso di fare autonomamente, e da lì i pezzi sono venuti fuori quasi da soli. C'è anche da dire che paradossalmente suoniamo più ora di quando siamo usciti col precedente disco sotto Universal, e questo è secondo noi il vero obiettivo che deve avere una band visto che ormai di dischi non se ne vendono più e la popolarità sui social network o su YouTube è nulla se non è supportata da una visibilità “vera”: non siamo una band che può permettersi tour in tutta Italia ma almeno al nord ci stiamo difendendo, riuscendo ad entrare anche in belle realtà come i festival a Lu Monferrato o A Night Like This, e questo ci dà la misura che quello che stiamo facendo, con tutte le fatiche di questo mondo, ha un suo senso.

Mi è capitato, parlando con un'altra band (Vintage Violence ndr), di riscontrare una simile visione aziendalista anche nel mondo del crowdfunding, con piattaforme come Musicraiser. Voi cosa pensate al riguardo?

Vedo delle realtà che funzionano, come ad esempio Casa Bertallot, ma non la trovo una soluzione sensata per band emergenti. E' un meccanismo che funziona male, che non si basa sulla conoscenza, sulla fiducia, ma sul presupposto che degli sconosciuti ti diano dei soldi, perché ovviamente se la base economica per fare un lavoro arriva dai tuoi fan per quale motivo dovresti dare dei soldi a loro per questo servizio? E' come la banca, dove do dei soldi a qualcuno per fargli tenere il mio denaro e non darmelo neanche tutto, un meccanismo che si è sviluppato culturalmente portandoti a ragionare sulla sicurezza di non subire furti a scapito di parte dei tuoi guadagni: ma per le band non ha senso, perché la base di fan reagisce sempre positivamente agli stimoli ed alle necessità di chi supporta, Musicraiser ci mette solo il proprio grosso nome senza neanche far sapere poi se mille persone hanno donato qualcosa per la tua causa o se magari la maggior parte della cifra è stata messa da tuo zio. E' un sistema che dona la grande illusione di poter essere tutti musicisti, di poter tutti arrivare in alto, la stessa che ti dà X-Factor dove però per uno che ce la fa ce ne sono due-tremila che invece si sono infranti contro uno scoglio, e avrebbero potuto sfruttare il tempo perso per un'audizione per scrivere una canzone.

Questa estate siete stati fra le varie “vittime” del maltempo che ha fatto saltare molte date al Carroponte e, nello specifico, quella in cui avreste dovuto aprire il concerto dei Massimo Volume. Potendo riscuotere una sorta di “bonus sfortuna” con chi vi piacerebbe suonare a parziale contropartita di questa delusione?

Sì, abbiamo avuto davvero sfiga, per ben due anni di fila al Carroponte. Il primo anno con i FASK (che hanno avuto un impedimento all'ultimo) e poi quest'anno con i Massimo Volume. Beffardo il tempo che ci ha fatto sperare fino alle 20:00, neanche il tempo di finire il check ed è venuto giù  "Dio a pezzi" come dice Claudio. Se dovessi fare il toto live (che nome del cazzo) direi che qualche sfizio ce lo siamo già tolto, con Fiumani per esempio o con i Non Voglio che Clara. Se parliamo di italiani direi Paolo Benvegù o i Ministri o per esempio i Marlene. Se parliamo proprio di un sogno, cioè la fiera dell'impossibile direi Interpol tutta la vita.

In questi giorni è nuovamente sulla cresta dell'onda il video di Dei per sempre, prima Rockit ora Mtv, potete raccontarmi qualcosa del concept e di come è nato?

Guarda, sui video abbiamo sempre fatto il diavolo a quattro, sbattendoci e producendo tutto da soli o quasi, cioè non pagando mai un videmaker. Spesso le sbavature erano evidenti ma non credo che abbiamo mai fatto un video brutto o senza senso, anzi di senso spesso ne abbiamo messo pure troppo. Questa volta volevamo solo un immaginario fedele alla canzone e al mood che permea l'album. Io (Lucantonio) mi sono imposto di lavorare più semplicemente, sfidandomi, ma lavorando sulla semplicità del girato. Quindi mi sono ispirato a cose che amo e che credevo di saper gestire, quindi ho proposto a tutti di usare dei primi piani o dei mezzi busti in gremì screen per poi ritagliarle e infilare delle città dei paesaggi, un po' come avevo visto in True Detective ma che inseguo in fotografia da tempo. La tecnica precisa si chiama doppia esposizione in ambito fotografico e consiste proprio nell'inserire dei passeggi delle figure o qualunque cosa all'interno di una sagoma, in un primo piano. L'idea che un certo mondo si fonda con l'animo umano. Ecco questo ha mosso tutte le fila della giostra di immagini che si susseguono nel video. In più c'era questo passaggio del brano in cui si dice "E con la forza dei nostri occhi piegar gli spazi". Da lì è partita l'idea di filmare Milano, l'Aeroporto di Malpensa e Il Carroponte in auto e poi applicare uno specchio che facesse comparire i palazzi, li aprisse davanti allo spettatore. Un caleidoscopio meno psichedelico e più fantascientifico. Credo che tutto sia tornato alla fine e i risultati, insomma, devono pur dirci che è stata una scelta vincente.


Siamo partiti con una cover ed arriviamo in chiusura ad un'altra cover, ovvero Idroscalo di Edipo: com'è nata questa curiosa operazione?

E' più semplice di come appaia, anche se i risultati sono stati esilaranti, più che altro per il contrasto emerso tra i suoni ed i testi. E' nata dalla proposta di Rockol di fare una compilation con il meglio di quell'anno (sarà stato il 2012 -2013) ma non la solita scelta di brani tra le band selezionate ma una vera e propria festa di suoni, incrociando gli artisti e facendoli interagire con una cover l'uno degli altri. Ognuno insomma interpretava il brano dell'altro e questo era il contributo per la compilation. Noi scegliemmo Edipo e lui accetto lo scambio. Ora, puoi capire bene che i nostri progetti sono talmente distanti da essere un "matrimonio" folle. Eppure è stato divertentissimo e la nostra versione di Idroscalo è inquietante, super melodica e per questo ancora più straniante, quasi commuovente nella melodia ma poi il testo era quello provocatorio e fallimentare (in senso buono) di Edipo e quindi si creava questo stato emotivo strano, come se stessi a guardare un adolescente fuori da una festa che balla in maniera scomposta e dolcissima. Ecco l'abbiamo immaginata e realizzata un po' così. Stefano Ficagna (si ringraziano i MasCara)

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