6 agosto 2013

Dimartino e le turbolenze sentimentali di una gemma del nuovo cantautorato italiano

“Ad un certo punto della vita non è la speranza l'ultima a morire, ma il morire è l'ultima speranza”, lo diceva Leonardo Sascia, scrittore e saggista siciliano, classe 1921; “Bacerò un astronauta per avere un contatto con le stelle, con l'assenza di gravità, per sentirmi più lontano da voi, dal traffico, da me”, lo canta Dimartino, compositore e cantante siciliano, classe 1982 e conferma contemporanea, e vivente, che la Sicilia è una terra incredibilmente prolifica di artisti concettuali, un’isola felice (nel senso letterale del termine, e non solo), un ventre materno e fertile che genera figli d’arte che hanno tanto talento da offrire, e da cantare e narrare, a chi sta al di là dello Stretto. Ma c’è ancora qualcosa che lega i due autori, così lontani nel tempo ma tanto vicini nello spazio, e cioè il tema amaro della “dolce morte”, dell’alienazione come drammatica soluzione verso la fuga, dell’annientamento fisico come ultima speranza per la salvezza, temi portanti dell’ultimo lavoro di Dimartino (nome d’arte che si cela dietro al giovane Antonio Di Martino) intitolato Non vengo più mamma, un concept album, pubblicato solo in vinile, da ascoltare e leggere assieme al fumetto che lo accompagna
: 6 tracce per 12 tavole con le parole di Dimartino e i disegni di Igor Scalisi Palminteri ad illustrare la storia di due ragazzi, due corpi che si incontrano, due anime che si riconoscono, che decidono di compiere assieme un viaggio partendo dall’interrogativo se “l’anima sopravviverebbe lo stesso senza più un corpo ad ospitarla”. Senza aggiungere altre parole alla narrativa postmoderna contenuta nel disco di Dimartino, v’invito a dare un’occhiata al fumetto (tutte le tavole che compongono il disco sono visibili sul sito ufficiale dell’artista), senza che sia io ad anticiparvi il finale dell’affinità immediata dei due giovani, in modo che possiate trarne individualmente i contenuti e vivere, così, le emozioni che più sentite vostre, quelle generate dalla vostra lettura e dalla vostra vista; io, qui e adesso, mi limito a scrivere le emozioni generate dall’ascolto della musica. Non vengo più mamma è uscito a giugno, sulla scia, a meno di un anno di distanza, del precedente lavoro di Dimartino, Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile, titolo prolisso che incornicia un album eccellente e considerato, nel panorama indie, uno dei più bei dischi del 2012 per le sonorità melodiche, gli arrangiamenti curati e i testi impegnati e sinceri. A un primo ascolto dei due dischi, ciò che salta all’orecchio è la differenza delle sonorità, e questo mi ha condotta alla conclusione che, forse, il 2013 segna il passaggio a un sound elettronico che sembra attirare sempre più artisti, come dimostrano gli esperimenti che partono, a livello internazionale, da Thom Yorke con gli Atoms from Peace, per arrivare, in tempi più recenti, ai nostrani Perturbazione. Non vengo più mamma è un’esplosione di suoni, un disco estivo che non vuole essere un disco per l’estate, un concentrato di sonorità elettroniche che ti si attaccano alle orecchie; Dimartino crea un contest completamente diverso per la sua musica senza però tradire quello stile raffinato e ricercato che lo ha reso il portabandiera delle giovani leve dei cantautori italiani. No autobus, la prima delle sei tracce, la canzone più orecchiabile e leggera di tutto l’album di cui è stato creato un bel video che, per rendere l’esperienza trascendente dei due ragazzi protagonisti del fumetto, ricorre a un sofisticato sistema di ripresa video combinato in 3D. Nel testo, No autobus gioca molto sui “no” che compongono la vita quotidiana e che non sono necessariamente negazioni (“no autobus, no casa, novità, no cani, novembre nostalgico”) con delle sonorità e dei nonsense che ricordano le sperimentazioni di Battiato, cosa che accade anche in Piangi Maria (nome della protagonista femminile del fumetto) dove la musica e il testo sembrano composti per commuovere e strappare un sorriso: “la verità è scritta solo tra le righe dei maglioni, ma dobbiamo fare presto, andare lontano che la guerra è arrivata davvero, ma non ho più i miei superpoteri e neanche un fiore per vederti felice e forse è giusto che stiamo qui a berci tutto”, note di sogni adolescenziali conditi da atmosfere oniriche. In verità, non sono testi da commentare quelli che compongono questo disco, ma sono solo da ascoltare, non è casuale, infatti, che Il corpo non esiste e Scompariranno i falchi dal paese siano, una totalmente e l’altra quasi, strumentali, come a voler essere state lasciate volutamente senza parole per accompagnare la lettura del fumetto e il viaggio trascendentale assieme ai due protagonisti. Come fanno le stelle è un bel brano ritmato che racchiude il concetto che tutto cade, se pensato dal punto di vista delle piccolezze degli uomini, il corpo cade mentre l’anima tende all’infinito (“si cade giù in un secondo come le stelle…del cinema muto”), Non torneremo più è un tripudio di sonorità quasi da videogames, per l’effetto dell’utilizzo dei synth, che regalano un’atmosfera quasi disco che non abbandona però l’accenno al decadentismo su cui si sorregge l’intero disco, un brano sperimentale che è il prologo della storia a fumetti di cui il disco è la colonna sonora, dove possiamo immaginare i due protagonisti che vagano nello spazio come due steroidi, è il brano che preferisco per la sequenza ritmata, il groove ballabile e per il cameo romantico abilmente inserito nel testo: “questa stanza non ha più pareti ci siamo solo io e te, belli come aeroplani, poco prima di partire”. La sperimentazione di Dimartino non coincide con l’abbandono della sua poetica, anzi, crea qualcosa di nuovo, destinato a un pubblico fine e attento, per assaporare quest’album bisogna immergersi e cogliere le sfumature, oltre ad essere bravi ascoltatori.
E’ ufficiale ormai, è tempo di nuovi cantautori che stanno spazzando via l’attenzione da tutti quei gruppi cresciuti nello stivale che, nonostante le loro origini, si ostinano a cantare in inglese sfigurando spesso in testi sgrammaticati, pena la perdita della vena poetica. Testi sussurrati, quelli di Dimartino, che riconducono a esperienze che possiamo aver visto e vissuto tutti e che prendono forma grazie all’incontro con il fumetto, incontro quest’ultimo che non è una novità, il capostipite di questa tendenza è Davide Toffolo dei TARM che da sempre disegna da sé le copertine degli album della sua band. Partiamo da
E i bravi ascoltatori possono non lasciarsi scappare il già citato Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile, la cui artwork della copertina lascia già presagire quello che contiene: Dimartino immerso tra le nuvole, sullo sfondo il mare e due isolotti che si intravedono, le scarpe distrattamente slacciate, espressione in volto svanita e una valigia in mano piena di sogni, tutti ingredienti di un viaggio estatico. I testi, in realtà, sono tanto sognanti quanto reali da costringere l’ascoltatore a tornare coi piedi per terra: “io odio immensamente le Ferrovie dello Stato, perché è lì che ci diciamo addio quattro volte al mese”, così inizia Non siamo gli alberi, il primo brano del disco, con un amore e un addio, e lo sfogo di una generazione che compra tutto coi soldi dei padri , “e tutto quello che voglio da te è illegale, niente che si può cercare, che si può trovare, in questa parte di universo disponibile, niente che si può comprare con i soldi di mio padre”, un lento molto classico dove Dimartino grida le sue emozioni e riprende la frase che dà il titolo all’album, titolo che si potrebbe leggere in modi diversi ma il concetto essenziale che emerge, secondo me, è che è giusto prendersi delle pause, siamo troppo abituati a consumare tutto subito; allontanarsi dalle cose proprio mentre ci si è dentro può aiutare a capirne la necessità. Non ho più voglia di imparare, il mio brano preferito (assieme a Piccoli peccati), esordisce con un grazioso intro per piano e sfocia in un inno di protesta di studenti universitari (o, forse, di studenti di vita e basta) avversi a quei sistemi precostituiti del tutto irrispettosi verso la vita umana: “mentre guardavamo Il Divo sul manifesto del detersivo, pensavamo a Monicelli che vola dal balcone” è l’immagine cruda e reale, ma soprattutto commovente, di un disagio umano che fa da contraltare a una società distante che non capisce i suoi figli, “alla faccia della moda che ci vuole tutti giovani e belli, alla faccia dell’Italia che ci vuole vivi…e basta”. E Monicelli scelse la morte per salvarsi. Venga il tuo Regno è un brano ricco di suggestioni reali e idee fantasiose, che riprende e ricorda lo stile di Lucio Dalla anche nell’esecuzione canora, che dà sfogo all’immaginario e a qualche nonsense usato non a caso: “i laureati aspettano di lavorare, i lavoratori aspettano di morire, la meraviglia che avevo da bambino, la nascondo sotto al cuscino, venga il tuo Regno e venga pure Babbo Natale[…] venga Gesù con la sua pistola”, la concretezza e l’aspirazione, il tutto trasfigurato da quella pistola per portare “giustizia vera”, chissà. In Amore sociale il bravo Dimartino sembra fare il verso a Dente, soprattutto nella prima parte del brano (ahi ahi! piccola critica), il risultato è comunque un brano carezzevole, seppur malinconico, dove si parla di fallimenti quotidiani e piccole tragedie sentimentali consumate nei rioni popolari, di rancori che fanno male, “oltre il freddo delle case popolari, oltre il buio dei locali semiaperti, farò piano per non perdonarti mai”, amore sociale da cui si vuole scappare per potersi salvare. E poi, arriva il brano puro stile Marta sui Tubi, Cartoline da Amsterdam, che sfonda le barriere del melodico con uno spreco di altri nonsense che, chi conosce i Marta, sa che non vengono utilizzati a caso; il brano vede la partecipazione di Giovanni Gulino che, con i suoi tipici strattoni vocali, dà forma alle immaginazioni illusorie create dalla mente di Dimartino: “cartoline da Amsterdam, foglie in mezzo a un libro di Proust, non ero io al Luna Park, che cercavi tu (oppure era una mia illusione come quella volta che ti ho visto appesa all’attaccapanni)”. La penultima cena è un brano gradevole che parte con una sonata per piano stile Carosone e una scivolata vocale alla Rino Gaetano, e qui si respira finalmente la speranza di un amore fresco e sano, consumato “in pochi morsi ma buoni per divorarci bene […] e vedere un angelo che ci mette in bocca un pezzo di carne e una sigaretta”.
Maledetto autunno vede il maggiore impegno vocale di Dimartino che, al di là del talento come compositore, dimostra di avere una bella voce che ben si sposa con il pianoforte, gli archi e i fiati, e fa rientrare questo brano nel classico schema della canzone d’amore italiana, “ho costruito un albero per tenermi compagnia quando fuori nevica, non capisco la città e lei non capisce me, preferisco perderla come perderei anche te”; il brano seguente, Io non parlo mai, convince invece per la presenza dominante della chitarra acustica che accompagna le riflessioni fantasiose di un sognatore che non parla mai di fronte a un mondo che mette in gabbia le fantasie azzardate, “io non parlo mai del fatto che ho in mente di compiere un viaggio interstellare, costruirmi un’astronave con due bidoni giganti dell’immondizia appiccicati al motorino di un frigorifero”, e le speranze sentimentali, “io non parlo mai di te e di me”. Segue quella che, per me, è un piccolo capolavoro in musica, Piccoli peccati, che parte con un coretto di voci suadenti e sincere per introdurre un dialogo che Dimartino intrattiene con l’ascoltatore e nel quale mette in luce le colpe sotto le quali si cade in balia del quotidiano, che non offre vie di espiazione, se non l’abbandono alla semplicità condivisa, “semplice è un giorno da dividerci […], un souvenir da Roma e una torta per farci felice economica, perché alla nostra età ci si accontenta di poco” il tutto trascinato, da metà brano, da un giro di chitarra orecchiabile e coinvolgente fino alla fine. Avviandoci verso la fine, troviamo Poster di famiglia, brano eccezionale nel quale Dimartino ci rivela che la vita non è un film, o forse sì, e descrive il suo essere fuori dalle tendenze del momento rivelando “comprerò un disco di Modugno per il mio gusto fuori moda, e comprerò un poster di famiglia per il mio cuore fuori sede”, talmente fuori moda e fuori sede che il suo fare musica può essere considerato anacronistico, fuori dal suo tempo, nei testi di Dimartino ci si può specchiare il giovane del giorno d’oggi come il ragazzotto degli anni ’60, è il pregio del modello di uomo che con le sue canzoni concettuali ha sempre tanta fortuna nel nostro paese. Il capolinea di questo intenso e piacevole ingranaggio emotivo, giocato sulle emozioni e sulle condizioni che non hanno tempo (“ma che vuol dire adolescente, che vuol dire il tempo passa”), giunge con Ormai siamo troppo giovani, altra chicca musicata dalla sola chitarra, se non spuntare verso la fine una piccola sezione di orchestra per fiati con cui Dimartino si congeda chiudendo il suo album.
Non siamo gli alberi, è vero, come dice Dimartino; gli alberi hanno il pregio di avere radici salde per trarre la forza e innalzarsi sempre più in alto, noi abbiamo qualcosa in più, possiamo scoprirci, muoverci, sparire per migliorarci e poi tornare. Fare scoperte. Due cose mi sono chiesta ascoltando Dimartino, la prima è perché non l’ho scoperto prima, la seconda è quando sarà il suo prossimo concerto dalle nostre parti. Sonia Stevanini

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