6 luglio 2013

Tornano gli Ulan Bator, più chitarre e un interessante compendio postmoderno

Mi piace il nuovo album degli Ulan Bator, francesi che girano in macchina con la targa numero 75. E se anche Michael Gira degli Swans sostiene che siano il miglior gruppo francese degli ultimi 300 anni… magari qualcosa di carino da ascoltare potrebbe anche esserci, in questo En France en transe. Il gruppo gira da parecchi anni, ma da quel che leggo si è concesso molte pause dalla sua formazione, risalente al 1995 e quindi precedente al rigore di Di Biagio.Atmosfere molto post e poche baguettes sotto le ascelle sin dall’inizio: si parte bene. Velocità, poca noia, arpeggi ed elettronica sagacemente fusi in un interessante compendio di industria della modernità.
Forse la voce è un po’ scontata, appena soffiata e a mio giudizio leggermente noiosa. Ma si va avanti bene lo stesso. Ad un certo punto entra anche il piano. Nove tracce e nove pedinamenti, tra i quali spicca Bugarach, orientaleggiante e perfettamente organizzata tra rullanti e rabbiose sferzate di chitarre. Sì perché un merito degli Ulan Bator è sicuramente quello di utilizzare, in un genere abbastanza devoto al sintetico, molte chitarre. Chitarre noise e punk che reggono il gioco alla grande. Song for the deaf sarà forse un omaggio ai Queens of the Stone Age ma è il capitolo dell’album che meno mi piace. Per fortuna, con Fakir, si torna in atmosfere più sincere, cordiali e Southern Lord. Si chiude con deliri lungimiranti ed esoticità varie che culminano con un mutevole e peripatetico gioco vocale delle parole “En France – En Trance”.Insomma, non male. Mi sono divertito ad ascoltarlo e recensirlo, questo En France en transe. Ulan Bator gruppo da seguire, anche se l’unica ripetizione infinita di parole alla fine di un disco che riesco a seguire sino alla fine è il “Bush is a dickhead” degli Yaphet Kotto di Syncopated Synthetic Laments for Love. Andrea Vecchio

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