30 luglio 2013

Riecco David Lynch che gioca con la musica nel suo secondo capitolo, già definito modern blues

Chi pensava che l'incursione di David Lynch nel mondo della musica fosse un capriccio momentaneo, si sbagliava di grosso. Il regista americano, noto per i suoi film surreali e controversi, è più che mai deciso a proseguire nell'affascinante mondo della musica elettronica sperimentale. Alla veneranda età di sessantasette anni, Lynch ha recentemente pubblicato The big dream, uscito in Europa per l'etichetta Sunday best e in America per Sacred bones records. Stavolta, al contrario dell'esordio capolavoro Crazy clown time, al genere musicale di Lynch è stato dato anche un nome specifico: modern blues. Ciò che Lynch fa è costruire testi il cui mood viene poi svelato dalle atmosfere musicali che lui stesso crea, in collaborazione col produttore Dean Hurley.
Le melodie spesso prendono spunto dai vecchi blues che Lynch ascoltava alla radio quand'era giovane, e vengono poi innestate su una componente fortemente elettronica e profondamente innovativa, e sul finire dell'album anche futuristica. In partenza, invece, col brano The big dream, sembra di ascoltare un album dei Portishead, con un blues elettronico rallentato e con tinte opache che sanno di coscienza alterata. Segue il singolo Star dream girl, una sorta di blues lisergico che richiama un po' i Doors, che ci regala l'immagine surreale di un grande ammasso di gente che da tutte le parti si raduna per sognare una ragazza delle stelle. Con Last call i suoni si fanno estremamente moderni, sembra di ascoltare gli ultimi Depeche mode con il loro blues elettronico di Angel (e non è da escludere che gli stessi Depeche Mode si siano ispirati a Crazy clown time per molte delle sonorità utilizzate in Delta machine). La malinconia si fa strada in Cold wind blowin', brano emozionante che ripesca giri di accordi da anni cinquanta e li mescola sapientemente con le atmosfere di Velluto blu e degli altri capolavori cinematografici di Lynch. Ma ciò che sorprende più di un fulmine a ciel sereno è il quinto brano dell'album: The ballad of Hollis Brown, non un inedito ma una cover di Bob Dylan. La voce nasale ed effettata di Lynch e l'utilizzo di sonorità minimali convertono il brano di Dylan, datato 1964, in un moderno blues elettronico che non sfigura davanti all'originale. D'altronde anche il tema, un contadino che per colpa della povertà uccide moglie e figli e poi si suicida, è più che mai attuale. L'album prende poi una piega allucinata degna di Tricky e del Wild bunch di Bristol, con brani quali Wishing well, We rolled together e I want you, che si alternano a western da colonna sonora (Say it) e tentativi di rock sperimentale (Sun can't be seen no more, con un'interessante chitarra ad opera del figlio Riley). L'accento stretto di Lynch e la sua voce nasale spesso sussurrata o atonale rappresentano marchi di fabbrica in tutti i brani e denotano una maggiore sicurezza rispetto all'album d'esordio. Il finale dell'album apre a suoni fantascientifici e meditativi con The line it curves e soprattutto Are you sure, splendida ballata finale in sei ottavi che ricalca un po' These are my friends, una delle perle dell'album precedente, andando avanti così nel quasi inedito campo di quelle che potremmo definire "ballate elettroniche da meditazione".
Un paio di anni fa, pochi avrebbero scommesso qualcosa sull'esordio musicale di Lynch. Pochissimi si sarebbero aspettati un lavoro di tale livello. E quest'anno nessuno avrebbe pensato che ci sarebbe stato il bis, con un album di quelli che fanno davvero piacere e ci fanno sperare che David Lynch arrivi a settant'anni più arzillo che mai. Marco Maresca

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