21 giugno 2012

Gli Smashing tornano con Oceania: due recensioni a confronto


Oceania (Martha’s Music/EMI) è l’ottavo album degli Smashing pumpkins. Fa parte di un progetto musicale più ampio, intitolato Teargarden by kaleidyscope, avviato nel 2009 e comprendente quarantaquattro brani. Molti di essi, con tutta probabilità, per ora esistono solo nella mente di Billy Corgan. L’eclettico cantante e chitarrista, ormai rimasto l’unico elemento della band originaria, aveva infatti deciso, tre anni fa, di non pubblicare più canzoni nel classico formato di album. Ora, però, dev’essersi accorto che le sue ultime canzoni, pubblicate gratuitamente, non avevano riscosso il successo sperato. E così è tornato al formato classico, minacciando il ritiro dalla scena musicale qualora il nuovo album non riscuota il successo sperato. Ma il pelato chitarrista non è nuovo né ai cambi di idea né alle dichiarazioni un po’ forti. “Sui Radiohead ci piscio sopra”, aveva fieramente dichiarato qualche giorno fa, probabilmente col solo scopo di attirarsi addosso un po’ di attenzione, oltre che ulteriori aspettative sull’uscita dell’album. Come se non bastasse dichiarare che il nuovo disco è “il migliore dai tempi di Mellon Collie”. Affermazione forte, ma sarà vero?
Oceania, pur non discostandosi molto dalle ultime pubblicazioni della band di Chicago, ha il pregio di risultare in tutto e per tutto un album musicale e non una semplice accozzaglia di canzoni. Il disco parte benissimo da subito, con Quasar, una sorta di invocazione e preghiera quasi monocorde sostenuta da un delirio rock di chitarre pesantemente distorte e dal furioso drumming del giovanissimo Mike Byrne, classe 1990 (un applauso per questo ragazzo, che è veramente superlativo). Chi conosce la discografia degli Smashing pumpkins troverà parecchie analogie tra l’inizio di questo nuovo capitolo della band e il mitico Siamese dream del 1993. Segue Panopticon, che prosegue nel lirismo del brano precedente, e i giri di basso fantasiosi e melodici ricordano gli esordi di Gish, del 1991. “Ciò che amo di questo disco è che ha quel sound familiare dei vecchi Pumpkins, con una svolta moderna”, afferma Nicole Fiorentino, la nuova bassista della band, aggiungendo che Oceania è uno dei pochissimi album del gruppo ad essere stato composto collettivamente. I nuovi Pumpkins ci tengono a mostrare di essere molto più che semplici strumentisti assoldati da Billy Corgan, e spesso ci riescono. Dalla terza traccia in poi, però, chi si aspettava un disco rock ricco di orchestrazioni di chitarre distorte rimarrà deluso, mentre chi è amante delle emozionanti ballate sarà soddisfatto. The celestials, Violet rays e la splendida My love is winter (con un magico assolo di chitarra) sono infatti brani lenti ed introspettivi. “In questo periodo ed in questa epoca, con ciò che sta succedendo politicamente e socialmente, è giusto suonare qualcosa che sia più fantasioso e sognante”, afferma il chitarrista Jeff Schroeder. One diamond, one heart è un brano luminoso che ricorda la breve parentesi degli Zwan, la band in cui Corgan ha militato per un periodo. In questo brano e in Pinwheels trovano spazio alcune tastiere così acide e ruvide da fare quasi a gara con le chitarre, come non si sentiva dagli anni ’80 e dai tempi della new wave. Forse è questa la vera novità dei Pumpkins odierni. Una novità che però risulta apprezzabile più dal vivo che su album. Segue la title-track, Oceania, un progressive rock di oltre nove minuti, che mischia un po’ di tutto e termina in un epico assolo di chitarre sovrapposte, di stampo Iron Maiden, distorto a livelli disumani, che sfuma nel suo momento migliore (mentre dal vivo prosegue ad oltranza). Questo sì che è davvero uno dei migliori momenti dei Pumpkins. Pale Horse è un potenziale singolo pienamente degno dei tempi di Adore. Segue The chimera, un altro solare brano da Zwan in cui la fanno da padrone le armonie di chitarre. Glissandra, una malinconica ma vibrante canzone sul tema del passato, è l’ennesimo momento emotivo ed emozionante dell’album, prima di lasciare spazio alla tranquilla Inkless ed al notturno epilogo affidato a Wildflower.
I tempi di Siamese dream e di Mellon Collie non torneranno più, perché nel frattempo è cambiata la musica, è cambiato il mondo, sono cambiati i giovani (dei quali Billy Corgan per sopraggiunti limiti d’età non può certo essere il testimone odierno). Ma non per questo gli Smashing pumpkins dovrebbero ritirarsi dalle scene musicali. Dopotutto, nonostante gli anni che passano per tutti, anche questa nuova uscita discografica è intrisa della magia e dell’atmosfera sognante che ha da sempre accompagnato la band di Billy Corgan. E la chitarra del pelato non è mai stata così in forma. Marco Maresca


Se saremo ancora capaci di catalizzare l'interesse dei fan e di farli venire ai nostri concerti immagino che i prossimi tre o quattro anni saranno davvero interessanti per la band. Se invece Oceania dovesse sbattere contro lo stesso muro di disinteresse contro il quale si sono scontrati altri nostri lavori più recenti, allora credo sia il caso di fare un passo indietro e rimettere in discussione il gruppo e i progetti per il futuro”. Queste sono le clamorose dichiarazioni rilasciate da Billy Corgan a ‘Bilboard’ a novembre, proprio quando era prevista l’uscita iniziale di “Oceania”, lavoro in studio numero dieci degli Smashing Pumpkins che giunge a tre anni dal doppio ep Teargarden by Kaleidyscope a cinque da Zeitgeist, ultimo disco effettivo della band di Chicago. Dopo aver assistito al live delle “zucche” a Milano lo scorso 26 novembre possiamo dire che l’affetto e l’interesse del pubblico per Billy e soci comunque non mancherebbe, ma questo aspetto è dovuto più ai vecchi fasti che alle nuove proposte. Oceania è un lavoro che cerca di ricalcare lo stile degli SP che abbiamo conosciuto ai tempi di Siamese dream, Mellon Collie e Adore, dove il power rock chitarristico si miscela col progressive anni ’70, molto presente all’interno di questo disco. Ma la cattiveria di quegli anni d’oro sembra effettivamente svanita: già cinque anni fa, quando la band è tornata in scena dopo lo scioglimento con Zeitgeist, si intravedeva la strada verso il declino artistico. Oceania è un'ulteriore conferma che Billy Corgan sta cercando affannosamente di proporre qualcosa di appetibile e di affascinante (come la suite nella title-track e l’ipnotica Pinwheels) pur avendo perso lo smalto degli anni d’oro. D’altronde sono passati ormai quindici anni… Descrivendo l’album in sé, la partenza è affidata alla potente ma monotona Quasar (che sembra una brutta copia dei pezzi di Siamese dream) e all’altrettanto devastante (ma decisamente più bella) Panoptycon. Si fa rispettare la ballata The Celestials, primo singolo in cui chitarra acustica e basso new wave fanno da protagonisti. My Love Is Winter e One Diamond, One Heart scivolano via innocue prima di giungere a Pinwheels, uno dei momenti migliori di Oceania: l’apertura affidata a un synth in loop è degna dei Rush da cui si assiste un continuo cambio di espressività tra un passaggio e l’altro. Oceania è una suite di nove minuti composta da tre mini-tracce ipnotiche e affascinanti, adattissima a presentare gli SP dell’ultima decade. Pale Horse è l’ultima gemma dove Billy canta in modo sofferto (una delle poche canzoni in cui il leader maximo dà ottima prova di sé in un lavoro dove delude a livello vocale), prima dell’ennesimo tentativo (malriuscito) di riprendere quanto fatto agli albori della carriera (The Chimera e Inkless). Cala il sipario con Wildflower, ninna-nanna al mellotron che cerca di addolcire il finale di un lavoro che fa storcere il naso. Molti deja-vù, qualche esperimento poco riuscito in un album che tende più ad arrancare che a spingere, nonostante gli SP abbiano tutt’altre intenzioni. Billy Corgan sta lentamente smarrendo la creatività e la cattiveria che lo hanno reso star assoluta nel panorama del rock alternativo. Inoltre il “deus ex machina” non sembra più imprimere pathos quando canta, risultando monocorde e affaticato. “Oceania” è un lavoro stanco che vive solo di qualche fiammata che ravviva il quadro complessivo. Ma sono micce che non bastano ad infiammare né chi segue gli SP da sempre, né tantomeno chi li ha scoperti negli ultimi tempi. A quanto pare e con molto rammarico, le zucche sono quasi cotte… Marco Pagliari

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