6 giugno 2011

Premio "Provincia cronica" (III edizione - sezione racconti)
Ylenia Biancini - Mosè


Sono uno a cui piace vincere facile. Senza fatica, senza sacrificio. Usando solo forza e furbizia. E infatti perdo. Sempre. Da quando mi sveglio al mattino a quando mi addormento alla sera. Oggi ad esempio, mercoledì 27 aprile 2011. Sono uscito di casa verso le dieci per portare fuori il mio cane. Pioveva, ma di quella pioggia che non ti resta addosso e che pensi sempre che adesso vedrai che smette. Il mio cane è un meticcio di stazza media. Ha pelo liscio bianco ovunque, tranne che su orecchie e muso, che vantano invece un abbagliante color carota, da far invidia alle riviste patinate in bella vista dal parrucchiere. Ê un cane molto serio, non corre dietro alle "Fifì" di turno, non abbaia ai passanti, non salta addosso ai mocciosi che gli fanno festa, non lascia tracce di saliva in giro. E' ubbidiente e discreto. Ha i suoi tempi e le sue manie, ma credo che questa sia una caratteristica tipica di tutti i figli di Dio. Oggi, come tutti i giorni, siamo arrivati insieme, fino al nostro supermercato. C'è un bel parcheggio grande lì. Con tante aiuole e spartitraffico dall'erbetta verde e soffice. E' qui che porto il mio cane, a dare sfogo ai suoi bisogni. Gli piace, sono sicuro. Io intanto mi appoggio ad una delle monovolume parcheggiate, fumacchio una decina di sigarette, lancio qualche insulto sessuale alle gallinelle che capitano a tiro e aspetto che torni da me, alleggerito del peso quotidiano della vita. Qualcuno ogni tanto mi rimprovera, dicendo che dovrei portarlo al parco, ai giardini, addirittura prendere la macchina e andare in campagna. Ce l'abbiamo qui dietro la campagna noi della Leonessa d'Italia. Non ne vedo la ragione. Deve solo cagare e pisciare, mica mettersi a fare foto concettuali alle balle di fieno. Qui c'è tutto quello che serve. Spazio, verde, qualche altro cane (pochi, per la verità), movimento. Ed è vicino a casa. A che serve andare fino al parco? A me il parco non ha mai detto niente. Alberi piantati lì a fare ombra alle signorine che corrono, a quelle che leggono o che si tirano dietro la carrozzina con il moccioso appena nato. Sfigati che suonano i bonghi, che lanciano frisbee, come fossimo in California e un numero indefinito di "Ronaldi de noantri". E poi Mosè è contento, lo vedo. Saltella da un'aiuola all'altra, annusa, punta, si guarda in giro e, quando ha finito, mi trotterella incontro. Ha persino imparato a schivare le macchine, prima di finirci sotto e rovinarmi la giornata. Oggi però mi si avvicina una ragazzina, praticamente una bambina, con appuntata al petto la spilla di un’associazione di non so che e inizia a rivolgermi domande.
"È lei il padrone di quel cane?" segnala Mosè con la punta di una penna.
"Uhm" annuisco.
"Come si chiama?"
"Francesco Grande"
"No, mi riferivo al cane, comunque, piacere, io sono Alessia" mi allunga la manina bianca cadaverica. Scruto la ragazzina da vicino e mi accorgo che è magrissima e molto pallida. Oltre ad essere alta un metro e un pollice.
"Il cane si chiama Mosè, e non è abituato alle presentazioni ufficiali" quanto mi piace fare il duro. E' che sono un tipo duro.
"Il cane è denutrito, sporco, depresso. In pratica un randagio."
Forse non ho capito bene. "Parli del mio cane?"
Le do del tu, sembra Pollicina.
"Sì, del suo Mosè. Sono giorni che la seguiamo e monitoriamo il suo comportamento. Lei è passibile di denuncia per maltrattamento di animali, secondo l’articolo 544 del Codice Penale.”
Mi da del lei, sono un tipo duro.
Va bene. E' una guerra. Sono pronto.
"Perchè non vai a prendere un po' di sole. Sei bianca come un morto, ti si vedono le vene. E sei anche magra da far paura. E' una scelta o qualcuno ti tiene a stecchetto?”
Pollicina incassa senza fare neanche una smorfia e ribatte "Sono membro della Lega Nazionale per la difesa del Cane. Collaboriamo con il comune e l'ufficio di Polizia Giudiziaria di Brescia. Siamo autorizzati a presentare denuncia ogni qual volta riscontriamo un caso che abbia evidentemente bisogno di tutela.”
Va bene, Pollicina, si è fatto tardi.
"Il mio cane sta benissimo, non ha mai morso nessuno, ha il collare" glielo faccio dondolare davanti agli occhi "è dotato di chip di riconoscimento e se potesse parlare, ti direbbe che sono il miglior padrone del mondo. Arrivederci."
Faccio per andarmene, ma mi si pianta davanti con tutte le sue cartelline, i suoi fascicoli e la sua spilla di socia onoraria e mi propone, fissandomi negli occhi: "Chiediamoglielo!"
Oh Mamma. Un'entusiasta alle prese con "un mondo migliore è possibile" e quelle cose lì. Però, a guardarla bene, non è per niente brutta. Bianca e in scala uno a cento, sì, ma per niente brutta.
"Esattamente cosa dovremmo c h i e d e r e al mio cane?" sospiro e, appositamente, mi lascio scappare un piccolo rutto. "Portiamolo ai giardini, al parco, insomma in un posto più consono e vediamo come reagisce. Si sorprenderà!"
Non ho un cazzo da fare. Sono disoccupato da sei mesi, passo le mattine all'ufficio di collocamento o a spaccarmi la schiena su Facebook, un giro con questa fanatica non sarà poi la fine del mondo.
"Se lo porto al parco, mi libero di te e della presunta denuncia?" Vedo che Mosè sta quasi per essere steso da una grassona che guida una Punto Rossa e non riesco a trattenermi "Che cazzo fai, balena? Stai attenta al cane!"
Pollicina alza gli occhi al cielo, fa uno scatto da centometrista nata e raggiunge Mosè. Con la maestria di un prestigiatore, lo immobilizza e gli attacca un collare al collo, che fino a un secondo prima non mi ero accorto avesse tra le mani. Comincio a divertirmi. Mosè, salvo, la guarda, inclinando un po' il muso, tutto bagnato per via della pioggia che non accenna a smettere, e da bravo cane ringrazia: "Wuof!" "Lei è un criminale. Questo cane ha paura anche della sua ombra. Senti come trema! Guardi qui! Sono muscoli questi? E il pelo? Ne perde a ciocche. Indica che non è sano."
Lei continua a snocciolare prove di evidente mancanza di attenzione da parte mia nei confronti della bestiola, mentre penso che effettivamente in casa con i peli di Mosè ho ricavato una moquette bianca rossa cangiante. Pollicina all'improvviso si zittisce e affoga il viso tra i peli della collottola di Mosè. Così, come niente fosse, come fossero i migliori amici da una vita. Piange. Deduco che è scema. Che mi è toccata una mattina con una scema.
"Andiamo al parco. Ora. E poi lo portiamo da me in clinica. Il parco è per educare lei. La clinica è per rimettere in sesto lui." Ecco, lo sapevo, una stronza che si va a scegliere i clienti al supermercato. C'è crisi a Brescia, come in tutta Europa. E anche se questa cittadina bene o male ha sempre sputato soldi da tutti i pori, da qualche tempo ha dovuto stringere la corda per non rimanere con le braghe calate. Però non ha perso l'abitudine alla passeggiata della domenica pomeriggio alla Loggia, gallinelle al braccio dei loro compagni e di borse pagate quanto una pensione minima, agli aperitivi nei locali alla moda, alle macchinone che proprio non possono stare lontane dal centro storico, sennò chi le vede. Si vede invece che non portano più i cani a fare la toeletta, non cambiano più la cuccia e il collare ad ogni stagione e questa qui è rimasta senza lavoro. Ma con me non attacca.
"Senti, Alessia, non lo porto il cane a farsi la pedicure. Ci hai provato, è andata male. Ora per favore salutiamoci da buoni disoccupati, con una pacca sulle spalle."
"Si è ricordato il mio nome."
Arrossisce.
E' proprio bella.
"Comunque" torna seria "non faccio pedicure ai cani, sono un medico veterinario. Gli farò una visita completa per vedere di quali cure ha bisogno."
Mi guarda torva. "Gratis" aggiunge.
E' sveglia, mi piace parecchio.
"E poi vedremo come procedere per la denuncia."
Accetto di portare Mosè al parco solo perché ho paura di questa benedetta denuncia. E mentre ci dirigiamo lì a piedi, smette anche di piovere. Meglio, perché quando s’inzuppa, Mosè puzza di aringa da far vomitare. Pollicina non smette un secondo di parlare. Tra le tante cazzate che dice e che immediatamente rimuovo, capto una frase che mi rimette in pace con il mondo: "Lei è un caso limite, non uno dei più gravi." Deve essere una brava veterinaria che fa tutto per bene. Non vuole denunciarmi, dice. Vuole solo che m’innamori di Mosè. E quando finisce questa frase da Smemoranda delle scuole medie, si gira e mi sorride fortissimo. Mi assale un brivido, penso che qualcuno abbia spento il riscaldamento della terra. Un freddo profondo parte dalle ossa e mi congela il sangue. Lei ha improvvisamente cambiato aspetto. Non come quando una donna si mette in tiro, si trucca, si stira i capelli e si piazza sui trampoli. No, semplicemente, come per magia, non sembra più una bambina cresciuta, ma è una donna fatta e finita. Sono così preso a capire cosa mi stia succedendo, che quasi mi perdo la meraviglia del mio cane. E' un altro Mosè. Rincorre i palloni da calcio, abbaia ai bambini, li spaventa, si rotola nel prato, annusa le altre merde, abbaia senza motivo e fa il galletto con le cagnoline. Si vede però che è fuori forma e la competizione lo fa sfumare via con due latrati ben piazzati. Il solito Ringhio di turno.
Se Mosè è un altro cane, anche a me deve essere successo qualcosa di forte. Non ho voglia di andare a spaccare la faccia al padrone del Ringhio e ci metto una manciata di minuti a rendermi conto che vorrei avere vicino Pollicina tutti i giorni. Venire qui con lei e vedere come Mosè si risana, torna a splendere nel suo morbido manto, riprende peso, e, insomma, torna ad essere il cucciolo allegro che mi ha lasciato in eredità mia moglie, dopo essere finita sotto una macchina, qualche mese fa. La dottoressa risponde al telefono. E' l'amore di turno che chiama. E che, a quanto pare, la raggiungerà in una mezz'ora. Sono un tipo duro io, ignoro la fitta che mi prende allo stomaco e mi accendo la classica sigaretta di alibi. Mosè scagazza un po' dappertutto. Pollicina mi porge un sacchetto. Alzo un sopracciglio, davvero all'oscuro di quello che vuole che faccia. Forse pensa che mi venga da vomitare di fronte a tutto questo spettacolo di bontà, messo su da mamme, bambini, cani e vecchietti, al quale, in effetti, fatico ad abituarmi.
"Per?" faccio io.
"La merda" risponde lei.
Ah, vero. C'è questa legge salutista per cui le chacchine maleodoranti non devono più finire sotto le suole delle scarpe nuove, sopra i tappetini delle auto appena lavate o le moquette inamidate, ma i padroni si devono armare di forza e coraggio e raccoglierle ad una ad una. Coraggio. Raccolgo.
Rimaniamo lì ad aspettare che arrivi "amore".
"Senti dottoressa, ci vengo alla clinica. Anzi te lo lascio qualche giorno così lo rimetti in sesto." Mosè le si sta strofinando addosso, come con me no ha fatto mai.
Se ne vanno tutti e tre, mezz'ora dopo, lei, amore e Mosè, come una famiglia normale in un quasi pomeriggio di provincia. Mi fa segno con il dito, come a dire "Ci rivediamo qui fra un paio di giorni", ma lo sappiamo entrambi che non ci troveremo più. Forse l'unico che non lo capisce è proprio Mosè.
La chiamo " Alessia, perché oggi?"
"Perché mi sei sembrato pronto" risponde.
Sono un tipo duro io, però dovrei smetterla di accorgermi delle cose sempre quando non ci sono più.

"Francesco Grande è morto ieri mattina, intorno alle undici. Aveva quarantadue anni. Secondo le testimonianze di alcuni passanti, il suo corpo si è accasciato all'improvviso, al parcheggio dell'Ipermercato di Via Mantova a Brescia, dove ogni mattina portava il cane a passeggiare. Si propende per l'ipotesi d’infarto. Un ulteriore velo di tristezza si stende su questa già tragica vicenda, al pensiero del cane Mosè, anch'esso rinvenuto morto, a pochi metri di distanza dal corpo del padrone.”. Giornale di Brescia, giovedì 28 aprile 2011.

2 commenti:

  1. mi sembra che il finale del racconto ricordi un po' troppo da vicino quello di 'Io e te' di Ammaniti,non me ne voglia l'autore.Franco.

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  2. Il racconto ha un ritmo non sempre fluido, ma svela e trova un personaggio e una situazione di dolente ,perplessa umanità, in un contesto urbano che si intravede vuoto e desolato.

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