10 novembre 2010

Le luci della centrale elettrica - Per ora noi la chiameremo felicità

Come promesso, ecco una recensione del disco delle Luci della centrale elettrica che avevamo anticipato, qualche giorno fa, con un lancio non proprio incoraggiante: avevamo infatti titolato "Un nuovo disco, con il rischio di non avere più niente da dire". Ed in effetti, dopo un ascolto attento, questo secondo atteso album ha proprio sapore di deja vu.
Troppo farcito di immagini che raccontano la mestizia del mondo di oggi, troppe perole a raffica che, in alcuni casi, affollano la mente per poi dileguarsi di colpo, lasciando dopo l'ascolto poco o nulla. Troppi abusi di "polveri sottili", di "centrali nucleari", di "lavori interinali" o di "soffitti", tutte immagini, insieme a tante altre, già proposte nel disco precedente e qui ri-proposte senza sostanziali varianti.
Per non bissare Canzoni da spiaggia deturpata sarebbe stato opportuno lavorare per sottrazione, abbinando alle collaudate doti di scrittura di Vasco Brondi momenti musicali che le valorizzassero ancora di più, magari con episodi di ipnosi sonora a mio avviso azzeccatissimi.
Non è che nel ripetersi ci sia poi qualcosa di così negativo, ma l'attesa che circondava questo disco ci consente di parlare di un mezzo flop. Per fare un accostamento letterario, con le debite proporzioni, è come se Paolo Giordano scrivesse un sequel di "La solitudine dei numeri primi" fotocopia del suo best seller d'esordio: la critica se lo mangerebbe...
Brondi non ha saputo aggiungere nulla a quanto già detto: proporre musica di contenuto, con un messaggio, è una sfida ambiziosa e ardua: Vasco ha riproposto, con onestà, il suo di messaggio, ma la sfida è andare oltre, evolversi.
Esempi virtuosi potevano essere, in questo senso, Carmen Consoli, Franco Battiato o Moltheni, che Brondi cita spesso come suo vate, ma da cui non ha saputo cogliere la lezione più importante, l'attitudine ad evolversi.
Nel disco, dopo questa lunga premessa, vanno citati anche episodi positivi: Quando tornerai dall'estero, è forse la canzone migliore del disco: gli aironi che abitano vicini al campo nomadi sono una immagine tipicamente novarese (io sono di Novara, dove ci sono ben due campi nomadi tra le risaie, ecco perchè lo dico) che mi ha davvero evocato qualcosa. L'amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici si fa apprezzare perchè differente dal punto di vista musicale, con una chitarra opportunamente folk.
Curioso poi rilevare come Le petroliere vadano di gran moda: un titolo uguale (ma singolare, la petroliera) è anche nell'album dei Ministri di poche settimane fa.
Un disco che sconsiglio di acquistare a chi abbia già Canzoni da spiaggia deturpata: la vis comunicativa di Brondi è in questo secondo lavoro decisamente spuntata.
Roberto Conti

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