15 gennaio 2005

Rosa Romano Bettini - La sagra è vicina

Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Rosa Romano Bettini - La sagra è vicina

Scese dal treno con il fiato in gola. Finalmente tornava a casa; ancora qualche minuto e poi, dopo aver attraversato il vialetto, avrebbe aperto la porta, la stessa porta che la sera di San Bartolomeo di due anni prima si era chiuso alle spalle, consapevole di ciò che lo stava aspettando.
A casa: la prima cosa che sognava di fare, appena varcata la soglia, era spaparazzarsi sul lettone di morbido lattice e dimenticare il passato, tornare indietro nel tempo come se nulla fosse accaduto. Ma era un desiderio impossibile e lui lo sapeva. Ormai la sua identità, la sua persona, la sua stessa vita futura, per via di quella bravata, avevano preso una nuova e diversa conformazione.
“Questa è la vita e il rebus delle occasioni” si disse. E non aveva torto, perché ci vuole poco per tagliare i ponti con il presente ed entrare in un domani più scuro dell’anima di un fucile: un’indecisione, una leggerezza, un’insolenza da bullo che si crede imbattibile e, invece del mondo intero che s'inchina ai tuoi piedi come pretendi ti sia dovuto, ti ritrovi due braccialetti alle mani.
A lui, Giacomo S. era successo così.O forse no! La verità era un po' diversa, ma gli piaceva pensare così.

Erano le venti passate quando arrivò davanti all’uscio di casa. Emozionato si fermò qualche istante: nuovamente la nostalgia del passato gli si presentò dinnanzi e lo avvolse con un profumo che solo il suo olfatto poteva apprezzare.
La sua casa, quasi non la riconosceva più. E pensare che c'era stato un tempo in cui l'aveva considerata ostile e nemica.
Forse perché lo avevano obbligato ad amarla. Da bambino gli avevano insegnato a chiamarla nido, poi casetta, infine porto sicuro, ma crescendo se l’era sentita comprimere addosso come un busto rigido di due taglie più piccolo.
In carcere però l’aveva sognata più volte ed ora la guardava commosso.
La chiave girò a vuoto e Giacomo ebbe il timore che Milena avesse cambiato la serratura. Riprovò per tre volte e per tre volte la porta lo rinnegò, solo alla quarta si aprì, ma implorò un clic simile all'eco di una preghiera. Appena dentro fu assalito dal buio, dappertutto aleggiava il silenzio della resa e dell’abbandono. Trattenne il respiro, ma non riuscì a controllarsi e sopraffatto da quella totale assenza di rumori e respiri ebbe un tremito di paura. Cercò un lume e l'accese.
La stanza era quasi completamente vuota. Sulle pareti riconobbe i segni di alcuni quadri rimossi. Abbandonato sul tavolo giaceva, ricoperto da uno strato di polvere e di stanchezza, un vecchio giornale che parlava del suo reato. Solo allora si chiese cosa avevano detto e fatto i suoi concittadini leggendolo, ma si rispose subito dopo che non gli importava e non doveva importargliene dal momento che aveva pagato il suo debito alla società.
Società! Questa parola gli ricordò Simone, il suo compagno di cella. Lui non sarebbe stato dello stesso parere. “Quale società?” domandava Simone ogni volta che la collettività veniva in un modo o nell’altro chiamata in causa. “Perché anche la prigione è una società, senza bon ton, d’accordo, ma pur sempre un pezzo di stato, l’espressione di ciò che siamo e che possiamo in ogni istante diventare.”
Inutile tentare di controbattere, né tanto meno sorridere. Simone su questo era molto determinato. “Non c’è bisogno di ridere né ergersi a implacabili giudici. L’attimo fuggente può far di te ciò che non avresti mai immaginato di diventare e in pochi istanti ti ritrovi a pulire il tubo di scarico di quella che chiami la buona società”, diceva, per poi tornare al suo tormentato mutismo.
“No,” si disse Giacomo non gli importava affatto di quel che aveva detto la gente, come non gli importava che Milena, sua moglie, tre mesi prima lo avesse lasciato.
Glielo aveva mandato a dire tramite l’avvocato, neppure il coraggio di affrontarlo aveva avuto. Però s’era portata via denaro, oggetti, valori e ricordi, oltre a un pezzo di vita comune.

Riaprì lievemente la porta, quasi che da quell’apertura il mondo avesse potuto ascoltarlo e vederlo, o era lui che desiderava farsi risucchiare da quell’impercettibile spazio e ritornare nel mondo, magari in piazza del Popolo, o vicino alla statua di Garibaldi, per ammirare i fuochi d’artificio che stavano scoppiando in quel preciso momento?
Forse voleva solo bere una birra in compagnia degli amici.
Amici! Ne aveva colpito in modo irreversibile uno due anni prima, in una scorribanda ubriaca ed era stato il suo amico-nemico Vittorio, che l’aveva sfidato, come pochi sanno sfidare. “In macchina, sulla strada che porta al Castello. Chi arriva prima ha le palle!” Gli aveva detto Vittorio e lui, Giacomo, più ubriaco del solito aveva accettato. Vittorio era arrivato primo, lui dietro, come sempre perdente. Era stata una curva imprevista, o un ostacolo nero, o la luna rossa arrabbiata, cosa era stato Giacomo non riuscì mai a saperlo. Seppe però che sullo spiazzo vicino al castello, aveva investito Vittorio mentre scendeva esultante dall’auto. Lo aveva steso senza neppure toccare il freno.
Girò qua e là per la casa, solo alla fine si diresse in cucina. Improvvisamente gli era venuta fame. Cercò qualcosa da mettere sotto i denti, ma non trovò niente. Milena se n’era andata tre mesi prima portandosi via tutto; il suo era stato un saccheggio in piena regola, avallato dalla legge e dalla morale. Dopo di allora nessuno era entrato in casa, comprensibile quindi che non ci fosse niente da mangiare.
Pensò di telefonare a qualcuno e farsi invitare a cena. Perché no? Ma a chi?
A Zio Marcello, il fratello più caro a sua mamma. Le era stato molto vicino, quando lui Giacomo ero in carcere e lei stava morendo.
Chiamò zio Marcello e zio Marcello rispose
“Ciao Giacomo, sei tornato?” “Almeno potevi avvisare” “Adesso come faccio?” “Sono già andato a dormire. Non mi sento molto bene.”“ Facciamo domani, domani vieni e parliamo... “
Riagganciò.
Si ricordò di suo cugino Gian Luca. Avevano vissuto insieme i primi quindici anni della loro vita. Poi lui si era trasferito ma il legame tra loro era rimasto forte.
Chiamò Gian Luca e suo cugino rispose:
“Chi si sente! Giacomo!” “Perché non mi hai avvisato?” “Adesso sono fuori… accidenti… “ “Domani ti vedo volentieri, anzi mettiamoci d’accordo… domani ci facciamo una birra, che ne dici?”
Riagganciò per la seconda volta deluso.
C’era sempre Luciano, si disse. Luciano era un amico. L’amico. In carcere era andato a trovarlo più volte, gli aveva anche scritto, gli aveva mandato dei soldi.
Chiamò Luciano. E Luciano rispose:
“Ciao come stai?” “Sei arrivato?” “Quanto ti fermi?” “Mi dispiace io sono in viaggio, non ti posso essere utile. Ci sentiamo quando torno. Ben tornato e buona notte.”
Riattaccò scrollando il capo e la spalle. “Niente da fare” si disse. Non c'era nessuno per lui.
Il secondino del carcere si sarebbe mostrato più disponibile pensò. E pensò anche che non sarebbe dovuto tornare. In fondo il suo era un piccolo paese di collina, abbastanza lontano dal fragore del mare e della città, dove la gente ancora si sentiva un tutt’uno, dove ognuno faceva un po’ parte dell’altro. Lui aveva ridotto Vittorio su una sedia a rotelle e la gente non glielo aveva perdonato.
Ma ormai era tornato e qualcosa doveva fare. Prima di tutto mangiare. Una voce interiore gli ricordò che lui era un solo e tale sarebbe rimasto per un bel po’ di tempo, perciò si doveva arrangiare. Così decise di uscire e, sia pure controvoglia, andare alla sagra che facevano a Castelvento.
La conosceva bene quella sagra, ci andava da ragazzino, con gli altri per bere e cuccare, anche se in verità erano sempre gli altri, Vittorio in testa, a prendersi le ragazze più belle. Lui si doveva adattare, accettare ciò che il resto del branco lasciava.

La notte era limpida e una leggera brezza accarezzava le foglie dei noccioli che costeggiavano il viale. Man mano che camminava la casa alle sue spalle si faceva piccola e stinta, come un abito smesso, consumato dai frequenti lavaggi.
Arrivò in fondo al viale e imboccò la provinciale che portava in paese.
L’appetito e la vastità degli spazi gli fecero per un attimo rimpiangere il carcere. Ricordò il Direttore sulla porta d’ingresso, mentre gli dava la mano e gli suggeriva un’agenzia che gli avrebbe dato il lavoro. “Rivolgiti a loro, un posto in un call center te lo trovano” gli aveva detto.
Ma lui non volevo più lavorare in un call center. L’aveva fatto in carcere, ora basta. Voleva tornare al suo lavoro abituale che era quello di orafo e creare gioielli, bellezze, arabeschi preziosi da far brillare gli occhi a chi li avesse guardati.
Rievocare il lavoro fu per Giacomo tornare indietro nel tempo, ai primi passi nella scuola professionale per orafi, frequentata a dispetto e tra lo stupore di tutti e di tutte. Qualcuno, infatti, aveva sussurrato con un po’ di malizia che certi lavori sono femminili, ma era stato zittito immediatamente. Lo sapevano tutti che lui era un maschio doc, aveva sputato l’anima e il sangue sui campo di calcio, a rincorrere una palla più grande del mondo, dentro cui c’erano tifose urlanti e donne innamorate. Perché lui era un portiere. Un portiere un po’ troppo basso per diventare qualcuno. Così aveva detto un mister con pochi peli sulla lingua. E per lui era stato come chiudere il rubinetto dell’aria. Gli era rimasto però il retrogusto di quella parata da collezione non fatta, di quel pallone salvato in extremis ancora tutto da scrivere, da raccontare, da catalogare come un esemplare unico e irripetibile. Gli venne il magone pensando a quell’occasione mancata.
Non era stato l’unico suo fallimento. Altri ce n’erano stati, anzi a pensarci bene la sequenza dei ploff non si era mai interrotta, anche se quelli infantili, che ora si poteva permettere di raccontare con un distaccato sorriso, avevano un profumo speziato di nostalgia; i più recenti, invece, portavano l’etichetta di fabbricazione e il sacrificio del prezzo elevato, da pagare a rate ancora per molto tempo.
Come il suo matrimonio con Milena. Di Milena l’aveva colpito la voce. Stridula e insieme sensuale, era incredibile come in una voce potessero coesistere le due qualità, opposte e complementari.
Quella voce lo aveva perseguitato, inseguito ovunque, anche in carcere, se l'era risentita mille volte nelle orecchie. A sua insaputa, nel bel mezzo di una telefonata, arrivava da chissà dove e si sovrapponeva alla voce dello sconosciuto interlocutore che chiamava il call center.
Potenza e magia di una voce! Eppure con lei era stata sì e no tre anni di cui due passati in carcere.

A un tratto, mentre camminava nel buio crescente, Giacomo si accorse di avere un gatto al suo fianco.
Si fermò.
Anche il gatto si fermò e miagolò.
Riprese a camminare e il gatto riprese a camminare.
Lo fece due volte e per due volte il gatto ripeté i suoi gesti, senza mai smettere di miagolare. Come se fosse stato addestrato.
Era di media grandezza, muscoloso, forte e compatto, con un mantello nerissimo e occhi brillanti colore del rame.
Di chi era? Perché miagolava in quel modo?
“Che c’è? Chi sei?” gli chiese Giacomo.
Il gatto in tutta risposta gli saltò tra le gambe, poi gli azzannò i pantaloni e tentò di trascinarlo verso il ciglio della strada, dove c'erano i campi.
Giacomo si fermò nuovamente.
Che voleva quel gatto?
Perché lo inseguiva?
Poi, all'improvviso, udì un lamento arrivare da lontano. Impossibile però capire da dove.
“Cos’è?” domandò Giacomo al gatto.
Il gatto gli puntò addosso i suoi occhi e lui si chinò ad accarezzarlo. Gli erano sempre piaciuti gli animali. I gatti in modo particolare. La carezza gli ricordò Rox, il gatto peluche che possedeva quando era bambino. Ebbe uno slancio di felicità. Come se avesse finalmente ritrovato un bene smarrito. Quel peluche lui lo accarezzavo tutte le sere, quando andava a dormire. Non osava dirlo, ma il buio gli metteva addosso un’ansia indescrivibile. Anche adesso, nonostante la dura esperienza del carcere, la vastità della tenebre gli faceva venire il batticuore.
Non ebbe tempo per altre dolcezze, perché il gatto gli riacciuffò i pantaloni e di nuovo tentò di trascinarlo verso il prato. E qui si fermò, forse per permettere a Giacomo di riascoltare il lamento.
“Non capisco. Chi è, cos'è, da dove viene? Chiese forte.
Il gatto rizzò la testa, miagolò due volte, poi lo puntò con i suoi occhi ramati.
“Va bene! Fammi strada, ti seguo” disse Giacomo al gatto. Il gatto fece un balzo, poi s'addentrò nel campo coltivato a carpini e castagni. Giacomo lo seguì con fatica. Sebbene ci fossero la luna piena e una luminosa stellata non riusciva a vedere il sentiero e incespicò varie volte, ma si riprese immediatamente, spinto da un sentimento di paura e curiosità.
Dopo un centinaio di metri, il gatto si fermò e prese a miagolare più forte.
Giacomo restò immobile, solo le gambe gli traballavano un po’. Si abbassò sulle ginocchia e si rivolse al gatto: a quell'altezza il buio era ancora più fitto, tuttavia riconobbe il posto e tremò.
A pochi passi da lui, infatti, c’era un pozzo a imbuto, composto da alcuni gradini scavati in chissà quale anno della preistoria, che si riempiva e svuotava a secondo della stagione e dove le bande di bambini andavano a esorcizzare la paura e il ribrezzo con riti tribali, che ancora adesso gli si ripresentavano qualche volta nei sogni.
Ci era venuto anche lui da piccolo, controvoglia, costretto dagli altri compagni e da un acceso senso d’inferiorità. Come tutti anche lui s’era dovuto affrancare e per mostrare coraggio era stato costretto a entrare nudo nel pozzo pieno di fango. Rigido, appoggiato coi piedi al primo gradino, tenendosi stretto alle radici che spuntavano dalla terra, per superare la prova aveva dovuto recitare il credo dei duri, mentre altri più grandi, uno di questi era Vittorio, ci pisciavano dentro ridendo.
Ridevano forte tutti e urlavano. Anche lui rideva, quelle risate se le ricordava ancora, risate a singhiozzo, mentre le lacrime gli scendevano sulle guance.
“Dove sei, perché ora non miagoli?” chiese al gatto. O forse lo disse al bambino che era stato e che improvvisamente gli era comparso dinanzi a chiedere conto di quelle lacrime?
Il gatto gli andò vicino, mosse la coda, poi con le zampe iniziò a scavare vicino alla fossa e continuò a farlo finché si risentì il lamento. Veniva da lì, dalla fossa, dove il gatto a fatica scavava. Giacomo si chinò ancora di più, tuttavia non riuscì a vedere. Si ricordò di avere in tasca il cellulare nuovo e lo accese. All'improvviso una prepotente luce azzurrognola illuminò il pozzo e il terreno adiacente, mentre il gatto, alla vista della luce, spalancò di più gli occhi e si pose in attesa.
Anche Giacomo restò un istante in sospeso, poi vide qualcosa fluttuare nel fango. Si distese completamente per terra e solo allora riconobbe la sagoma di un cucciolo agitarsi.
Lo tirò fuori appena in tempo. Ancora qualche minuto e sarebbe soffocato. Era un cagnolino tutto imbrattato di poltiglia nera e puzzolente, gemeva e tremava come il ticchettio di un vecchio orologio.
Giacomo lo appoggiò sulla terra, il gatto (anzi la gatta) gli si avvicinò e con la lingua iniziò a pulirlo. E continuò a farlo senza dar segni di stanchezza, con un'intensità che solo un amore particolare sa avere.
Immutolito, Giacomo restò lì ad ammirare quella femmina che puliva un cucciolo non suo. Gli animali sono grandi maestri dell’istinto materno pensò mentre davanti agli occhi gli comparve l’immagine di sua madre, quando al mattino lo aiutava a lavarsi e poi, prima che uscisse per andare a scuola, gli aggiustava premurosamente i capelli e la giacchetta.
Una fotografia del passato, l’immagine in bianco e nero dell’amore che ti accoglie e ti riempie. Quell’amore di cui spesso non sai apprezzare l’intensità della forza e passione, ma che rimpiangi con struggimento appena lo perdi.
Non ce l’aveva più quell’amore di mamma, non aveva neppure l’amore di moglie, e nemmeno l’amore d’amico pensò e fu come se lo stesse scoprendo in quel preciso istante.
Non aveva più niente e nessuno.
Ebbe un brivido di solitudine, ed era una solitudine nuova, autentica rivelazione ancora tutta da interiorizzare.
Quando il cucciolo fu completamente pulito, la gatta lo sollevò con i denti e si avvicinò a Giacomo, quasi a volerglielo offrire.
“Un cagnolino per me?” Chiese Giacomo.
Tremò, questa volta di tenerezza. Lo prese e lo accarezzò.
Aveva il pelo corto, per metà nero per metà bianco, ed era piccolo, piccolissimo. Il corpicino ancora caldo e tremante gli procurò un’emozione inattesa, che si trasformò in gioia quando il cagnolino gli leccò debolmente la mano e fece un verso che non era pianto, ma la manifestazione di una vita che lui Giacomo aveva reso possibile.
Strinse ancora di più il cane al petto, sentì il cuoricino battere ed ebbe l’impressione di essere diventato leggero, come se qualcuno, liberandolo da un peso estenuante, lo avesse definitivamente graziato per ciò che Vittorio gli aveva fatto e a sua volta lui aveva fatto a Vittorio.
Non era un pareggio di conti e neppure un forzato oblio, forse era solo perdono.
“ti chiamerò Perdono” disse al cucciolo.
“E tu invece Guida” disse rivolto alla gatta.
Ritornò a stringere il cucciolo e con la gatta che gli era tornata vicino, riprese la strada per Castelvento.
Se avesse avuto un flauto si sarebbe messo a suonare, ma aveva solo la voce e fischiettò una canzone.
Andò avanti così, sempre col cucciolo al petto e la gatta al suo fianco, fino a quando una brezza leggera gli regalò il profumo delle salsicce arrostite. La sagra è vicina, fra poco si mangia, disse ai suoi due nuovi amici. “E chissà?, magari incontriamo qualcuno.“
Poi ritornò a fischiettare.

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