11 gennaio 2005

Carlo Carlotto - I miei paesi

Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Carlo Carlotto - I miei paesi

E’ quando vado nelle grandi città che apprezzo di più il mio paese. Per differenza tra il traffico, il rumore, la mancanza di parcheggi, le code per fare tutto (anche la coda per fare la coda) e il loro contrario o la loro assenza.
Quando ho abitato a Roma e dovevo andare alla posta per pagare un conto corrente stavo in coda terribilmente ansioso. “E se quando toccherà a me, tra oltre mezz’ora, non funziona più il bancomat?” Ero terrorizzato dal rischio così probabile di gettare via il mio tempo. Che dolore pensare in quegli attimi allo sportello del mio paese, sempre libero e disponibile. E’ dal confronto che si capiscono le cose ma anche che nascono le frustrazioni, le invidie. Credo che le persone intorno a me ignorassero l’esistenza di uffici postali simili altrimenti avrebbero immediatamente inscenato una rivolta.
Ma la mente degli esseri umani è diabolica. Così, tornato al paese, mi spazientisco se davanti al bancone c’é già un’altra persona. Memoria corta o eterna insoddisfazione?
Il paese è la gente che ti conosce. O meglio non conosce te ma i tuoi genitori, almeno fino a che non hai una certa età. Poi tocca a te diventare autonomo, perdere l’etichetta di “figlio di”. Da quel momento cominci a costruire l’eredità per i tuoi, di figli e non puoi più vivere di rendita. Ripensi a com’eri tu quando vivevi sul credito maturato da tuo padre o tua madre e purtroppo ti rendi conto che non te ne importava nulla e, anzi, neppure ti sfiorava l’idea che stessi sfruttando una posizione costruita - e faticosamente anche - da altri.
Il paese è poter dire “qui giocavamo a biglie o a calcio” e sulla domanda ironica di tuo figlio “sul tetto del bar?” sorridere dolce e amaro insieme rispondendo fintamente burbero “certo, e contro la parabola satellitare facevamo rimbalzare la palla”.
Ma il paese è stato ed è di nuovo per me in questi ultimi mesi scoprire nuove strade, nuove persone, nuove e diverse abitudini. Ogni paese è diversamente uguale a ogni altro.
Ci sono personaggi identici ma con nomi differenti. Situazioni simili ma irriproducibili.
Il paese sono i negozi, purtroppo però in via di estinzione. E’ l’edicola, il panettiere, il macellaio, il verduriere ma più che altro ogni bottega è un po’ di tutto insieme. Così dal panettiere compri anche il prosciutto e la frutta e dal macellaio trovi pure le uova e l’olio. E ti rendi conto che il supermercato esisteva già prima che venisse ufficialmente inventato. Si chiamava emporio ma lo conoscevi come “dalla Tata”, “da Piero”, “da Bruno”. Persone dai nomi ospitali e dalle facce buone ma tutt’altro che sprovvedute. Del tipo “lasciamo pure che chi si ferma a comprare pensi che siamo dei provinciali fessi e facili da infinocchiare”. Che poi provinciali lo siamo veramente ma è sul commerciante ingenuo che invece avrei da obiettare.
Nel paese ci sono tipi come Berside che faceva il contadino, viveva con il fratello più anziano perché nessuno dei due si era sposato, parlava un italiano piemontesizzato e certamente suscitava più di un sorriso ironico per i suoi modi tutt’altro che signorili ma una volta l’anno chiudeva “baracca e burattini” e se ne stava un mese in crociera in giro per il mondo. Ricevevamo a casa cartoline colorate con francobolli meravigliosi che facevano sognare e che ancora oggi ricordo con chiara nostalgia.
Il paese è la solidarietà spicciola, quella delle grandi calamità (penso all’alluvione del 1994) o degli inconvenienti di stagione (le fitte nevicate dell’inverno appena passato). E allora ci si ritrova tutti intorno a un tavolo alla luce di una candela per mangiare la carne scongelata che altrimenti va a male. Oppure a spalare fianco a fianco prima davanti al mio e poi davanti al tuo garage.
Il paese però è anche il doversi arrangiare perché i servizi pubblici di trasporto sono scarsi o non esistono affatto. E’ il dover avere per forza un’automobile per andare all’ospedale a fare le analisi, in farmacia, al cinema (quando non costava così tanto e non c’erano ancora i videoregistratori e i noleggiatori di cassette e dvd). Oppure doversi affidare a Mario che intanto passa di lì per andare a lavorare visto che Gigidiregis ha un’età in cui la patente non gliela rinnovano più (o forse non l’ha mai avuta tanto a cosa gli serviva?).
Il paese è lasciare la chiave nella serratura, all’esterno, così chi arriva entra da solo e non ci si disturba per andare ad aprire. Perché tanto c’è Ninina dal piano di sopra che sente ogni rumore e controlla tutto quello che succede nel caseggiato. E se poi i ladri vengono davvero “chi se lo aspettava, proprio da noi! Come sono cambiati i tempi, non ci si può più fidare di nessuno” e se ne parla per quindici giorni ma si continua a comportarsi come prima.
Il paese sono le feste d’estate, il ballo all’aperto, le serate danzanti con la scelta orchestra “Tony e i Saturni”, le sagre dai nomi più incredibili, sempre uguali ma “l’anno scorso c’era più gente (o ce n’era meno) e si era mangiato meglio (o peggio)”.
Il paese sono i nomi delle vie e delle strade che tanto non servono perché il postino conosce tutti ed è sufficiente scrivere il nome del destinatario. Così il vicino di casa, comunista fino al midollo, si vantava che dalla Russia (quando ancora era URSS) aveva ricevuto una cartolina indirizzata semplicemente a “Paulin”.
Ma anche noi in paese abbiamo la toponomastica con i nomi dei personaggi importanti e degli eventi storici accanto alle celebrità e agli eroi locali oltre che alle indicazioni che ci paiono del tutto normali e non si capisce invece cos’abbiano da ridere quei forestieri.
Così c’è via Garibaldi, via Mazzini e via XX settembre accanto a via Scipione Barberis, via Momigliano, via Mario Gatti che incrociano via Rivazza, via dietro la Chiesa, parco del Gurei. Intanto non c’è miglior navigatore che l’anziano seduto sulla panchina di fianco allo stradone a indirizzarti dove devi andare. Che non vedeva l’ora di poter essere utile a qualcuno visto che “anche se hanno i compiuter su ‘ste macchine nuove, si perdono sempre e se non c’ero io erano lì a girare ancora adesso”.
Sono nato in un paese e vissuto in paesi. Ma mi domando sempre qual sia veramente il “mio paese”.
Se è quello in cui ti riconoscono tutti quando cammini per strada allora non c’è.
Perché non è quello in cui sono nato e neppure quello in cui lavoro e ho vissuto per un po’, neanche quello in cui ancora abita mio figlio e nemmeno quello in cui sto ricostruendo la mia nuova vita.
Sono “i miei paesi” che, per ragioni diverse, ho tutti nel cuore.

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