2 gennaio 2005

Andrea Sanfilippo - Festa di paese

Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Andrea Sanfilippo - Festa di paese
Dunque ora sì sentiva forte e chiaro quel senso di appartenenza cui aveva sempre aspirato.
Anche lui, esule fin dalla nascita dal resto del mondo, adesso portava con sé un evidente suggello generazionale che non lo avrebbe più abbandonato, mai più: non mentre tirava calci ai sassi che incontrava sulla via maestra, ancora si chiama così la principale arteria d’asfalto di alcuni borghi eternamente antichi, non durante i vani tentativi notturni di stemperare la noia scaraventando, a mano stavolta, la propria rabbia contro le altrui immemori finestre in dardi armati a sampietrini e ciottoli, come già detto a lungo sospinti in punta di piede, non quando quel senso di soffocante angoscia conferiva alla desolazione di questa provincia assetata dell’entroterra un vago alone di bellezza sfiorita.
Che già l’idea stessa di un entroterra, ovvero sempre e solo terra da qualsiasi lato si volga lo sguardo, è asfissiante oltre ogni umana sopportazione, in più nel suo caso, e in quello di alcuni dei suoi compaesani più sensibili, il tutto era reso ancora più insopportabile dalla beffa che quel paese arroccato sul declivio ustionato di un monte o collina che fosse, monte comunque secondo gli abitanti più campanilisti, sorgeva al centro di un’isola.
Un’ isola capite? Che per sua definizione è tagliata fuori dalla terraferma, grazie al mare liberatore di sogni e genti e che qui invece si prosciugava per dispetto, lasciando alla vista di chiunque quel suo fondale osceno e infruttuoso: sassi, zolle dure come sassi e un cazzo altrove fin che all’ultimo orizzonte il guardo esclude!
Unica consolazione per lui, e per alcuni dei suoi meno odiati amici, risiedeva nel rito officiato ogni sera. Una vendetta che liberasse laidamente il loro odio per quella terra più che matrigna, puttana frigida o infibulata, incapace di regalare emozioni, belle o brutte che fossero, trincerata nella sua insopportabile asetticità, imperturbabile sala d’attesa pre-mortem.
E allora giù, prodighi e copiosi sorsi di passito acerbo, e ancora soffi e sputi, ingorghi etilici e singhiozzi e groppi in gola, da sciogliere solo e sempre con l’ultimo e disdegnato duro ingollo per poi vomitare oltre il parapetto di quell’orribile Belvedere litri di bestemmie e bile sulle macchine e sulle teste parcheggiate di sotto.
Eh sì, perché anche le persone qui erano solo parcheggiate, disabituate fin dalla nascita alla vita, iniziate all’ufficio del vaniloquio marciapodistico da ingravidafinestre nei primi anni dell’adolescenza, per poi giungere, dopo qualche anno di tirocinio come Gesù Cristo sulla cima dell’ Engaddi fra gli Esseni, alla totale e ambita astenia anaffettiva.
Ormai sicuri della loro totale impermeabilità a quanto la vita potesse offrire, nel bene s’intende perché il male in ogni caso fortifica e tempra, gli indigeni di questo luogo ameno prendevano moglie, eternamente martiri beatificate per la loro sessuofobica insoddisfazione matrimoniale, sceglievano, o per meglio dire accettavano, un mestiere qualunque e attendevano, senza troppa ansia ovviamente, il raggiungimento della piena sublimazione ascetica di ogni antica e sbiadita traccia di umanità nei loro corpi imbolsiti e sfatti: l’andropausa.
E bisognava sentirli parlare questi adipoencefali bipedi, quasi sempre seduti comunque, discorrere urbanamente e rallegrarsi di “come si stava bene però fuori dalla città”, “Ah beh! Certo tutta un’altra cosa, non quel casino”, fino all’apoteosi di un rapido crescendo wagneriano delle quotidiane autocelebrazioni: il primato assoluto nell’assenza di crimini o omicidi.
Escludendo, ragionavano i nichilisti dei già citati blitz epigastrici, i reati contro il patrimonio, benché pecunia non olet, a causa di reale assenza di soldi, capitali e preziosi, qualche sacrificio umano, si dicevano, non solo non avrebbe alterato l’equilibrio dell’ecosistema ma avrebbe aggiunto un po’ di verve a quell’obitorio a cielo aperto.
Quante volte avevano invidiato i loro nonni, ultimi testimoni di un fatto di sangue fra quei dirupi e balze – “certo opera di qualche brigante straniero perché fra noi c’è solo brava gente” – o gli abitanti del resto del mondo che tutti i giorni diventavano protagonisti di qualche stupenda disgrazia, ottenendo, a riscatto di vite forse altrettanto grigie, quei, doverosi a una vita, penta minuti di celebrità televisiva, radiofonica o, ma solo come extrema ratio, stampata su carta a diffusione nazionale!
Allora sì, avrebbero avuto la certezza di esistere realmente, cosa che ormai può avvenire solo dopo la celebrazione tele-liturgica del battesimo ontologico via etere.
Ma qui davvero non c’era e non succedeva niente: non un personaggio famoso o famigerato, che so un attore o un boss mafioso, non una rivoluzione socio-culturale, che il sessantotto e gli anni di piombo qui vengono ricordati come il periodo in cui fece la sua prima comparsa il telefono e l’esecranda automobile, “che certo è più veloce ma vuoi mettere il cavallo”, non un broglio elettorale, che ancora un po’ il sindaco lo eleggevano per alzata di mano quelle quattromila anime che ancora rifiutavano il progresso e il mondo, non uno stupro, una rapina, o di cordite un colpo. Niente! Niente di niente!
Anche i morti, quando morivano definitivamente, se ne andavano con discrezione e senza alcun trambusto.
Ma adesso, durante quella assolata passeggiata post meridiana, in lui si faceva strada un senso concreto di orgoglio, sia per la sua rinata identità di uomo neo-millenario, sia per la novità assoluta e sconvolgente che stava per regalare al paese.
Il nuovo foriero, l’ultimo messia, venuto a riaprire le porte dell’inferno chiuse ab seculis seculorum per mano del nazareno, o almeno il profeta dell’Apocalisse che guarda lo squassare dei tuoni e ascolta i lampi e i nembi: così si consacrava autarchico nel suo sofisma peripatetico, non più uno ma l’Uno, colui che verrà ricordato e temuto, come si deve solo a chi può donare o togliere di proprio arbitrio la vita, di cui nessuno avrà più il cuore o la voglia di pronunziarne il vituperato nome indicandolo solo con un biascicato “lui”, lasciando nell’indefinito tutto ciò che l’ascesi mondana di quei luoghi aveva generato di mostruoso e abnorme.
Questa sarebbe stata l’unica speranza degli odiati concittadini: che quantomeno restasse un’anomalia isolata e sterile, che una provvidenziale oligospermia, una impotentia generandi, fisica o morale, lo rendesse orbo di accoliti o prole.
Ma quei falsi montanari non si rendevano conto che tutto era già scritto, e che solo un impedimento coeundi ne avrebbe potuto vanificare i desideri folli.
Già si vedeva come il terzo Giuda di Runeberg, il figlio unigenito di Dio che attira su di sé sia il martirio della carne che quello dell’animo con l’eterna infamia, si esaltava nel suo assurgere alla dignità dell’antonomasia e dell’eccellenza, eresiarca e bestemmiatore sublime, onomateta come solo Napoleone e un conte, nelle visioni di Don Lisander, seppero essere.
Molto meglio certo dell’antiquato brigante, “straniero o forse alieno” secondo i più fantasiosi tele-rincoglioniti, mosso da prosaici interessi pecuniari e non da una missione illuminata e di respiro eterno come la sua.
Ridiscendendo il budello, il sentiero o la feritoia di quella umana domusectomia, che attraversava tutta l’indecente bruttezza di quelle case prive di grazia e di storia, poste lì in pendenza e senza alcuna logica, quasi in bilico e pronte ad essere inghiottite dalla pendenza della via maestra, pensò ai suoi genitori, primi fautori di quella eterna condanna paesana, ai professori disillusi ed ignoranti, che tanta parte ebbero nell’infondere la dovuta apatia, sorella naturale di rassegnato fatalismo fra i discenti, agli amici gretti che mai lo avrebbero accompagnato nella sua fuga e alle donne che ne avevano svilito i sogni e le ambizioni.
Sospettò che ciascun abitante di quel fottutissimo brandello di mondo facesse parte di una congiura atta ad inibire o sfacciatamente ostacolare ogni possibile tentativo d’evasione, per conservare la loro etnia lobotomizzata;
Pensò che gran parte di questo disegno criminale fosse gestito e assolto dalle donne, prima in veste di madri e poi in quella di amanti mendaci;
Deliberò che in ogni caso tutti sarebbero stati condannati e puniti.
Una punizione capace di trasmettersi a tutte le future generazioni e a quelle presenti, quasi come negli anatemi divini delle tragedie greche.
Ma lui non era solo Edipo, Antigone od Oreste: lui era tutte le possibili varianti delle tragedie umane ed il loro creatore, ancor più di Eschilo, Sofocle o qualunque altro teorico del dolore.
E tutto grazie al regalo che gli aveva fatto qualche mese addietro quella troia pedemontana e di cui si era quasi dimenticato.
Ma ora lo stringeva in mano quel dono, scettro del potere terreno e simbolo araldico della sua corrotta generazione.
Lui, nato lontano dal vivere civile, isolato dai suoi simili dall’infausto volere dei fati, era riuscito a rubare la superba face ed ora, come un Prometeo misantropo, era venuto a sottrarre la luce e a dispensare oblio e turpitudini.
E si sarebbe immolato come il Battista di fronte alle lusinghe di Salomè, lui e tutta la sua generazione che ora avrebbe provato a condividere qualcosa con il resto del mondo.
Così si esaltava mentre correva furente giù per la via che lo avrebbe condotto, come sempre, al nulla fatto di campi eternamente a maggese e rovi, facendo garrire al vento la pergamena che lo certificava siero positivo, detentore di uno dei pochi morbi che volontariamente possono essere acquisiti e quindi devoluti, pronto a condividere con i suoi concittadini quel vanto indelebile di modernità.

Nessun commento:

Posta un commento