16 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica" (II edizione - sezione racconti)
Marco Amalfitano - Venuti da lontano...

Un vino di pessima qualità può essere quanto di più deleterio in circolazione per l’organismo umano. Il giornale di oggi identificava nelle polveri sottili il nemico pubblico numero uno, ma questa sera, almeno per il mio stomaco strizzato dai bruciori, è giunto il momento di eleggere un nuovo vincitore. Se Dio vuole tra poco andrà anche peggio. Alzerò la mia testa di cazzo dalla superficie gibbosa di questo appiccicoso e traballante tavolino da bar e correrò in bagno a vomitare succhi gastrici misti ad una robaccia acida e indegna della quale non vi svelerò neanche la cantina di produzione , giusto perché una denuncia è l’ultima cosa che mi farebbe comodo adesso. Voi degustatori di mosti pregiati penserete che sono un essere sgradevole e abbietto, senza darmi neppure il tempo di spiegare che nella cella frigorifera soverchiata da granelli di polvere e gremita di bibite gasate e dolciastre non c’era davvero niente di meglio e tra l’altro in paese questo è l’unico bar aperto dopo mezzanotte. Ad ogni modo non importa. Io lì per lì volevo andarmene a casa a ingoiare un paio di sonniferi nella speranza di venire colto a tradimento da un sonno plumbeo, con la faccia ancora conficcata sui cuscini color porpora di un molliccio divano; poi però il mio spirito di uomo di mondo mi ha condotto verso la solita fetida bettola, ricordandomi che un dramma umano diventa tanto più intenso e appassionante quanti più occhi avidi hanno ricevuto la facoltà di condividerne l’evoluzione. Senza dubbio ci sono altre variegate realtà che questa serata da incubo, raggomitolata nella luce fioca della periferia milanese, mi costringe ad affrontare come una pena e non esagero se dico che hanno un sapore ancor più amaro di quel vino in cartone da due soldi bucati. Innanzitutto il pubblico pagante; per il mio tormento messo alla gogna mi aspettavo qualcosa di più e invece il locale è praticamente deserto, eccezion fatta per due ragazzini con ogni probabilità minorenni, praticamente identici e che da circa mezz’ora ondeggiano svogliatamente, muovendo il capo al ritmo di una estenuante musica da discoteca con espressione ebete e occhio rigorosamente vacuo, simile a quello di chi ha appena patito una lobotomia totale. Il barista ha appena finito di aggirarsi tra i tavoli deserti a dare la passata di rito con un panno umido anche se non si è vista neppure una misera traccia di avventori. Ora sta imprecando contro la macchinetta del videopoker perché è già da un’ora che carica monetine senza vincere una mano. Dalla parete posta di fronte al bancone un Frank Zappa in bianco e nero, ritratto mentre se ne sta seduto sul cesso con le braghe calate, mi fissa con aria vagamente interrogativa. In effetti, egregio signor Zappa, non me l’aspettavo neppure io di passare così il mio cinquantacinquesimo compleanno.
Ogni anno invecchio peggio. A trent’anni avevo già un sacco di capelli bianchi e almeno tre doppi menti. Ora sono calvo, di candido mi sono rimaste giusto le basette e la notte russo da far schifo. Sono grottescamente adiposo, il mio corpo è gonfiato da quel tipo di grasso che ingolfa i frequentatori seriali di catene di fast food americani sparpagliate in tutto il mondo, nonostante in tutta la mia vita abbia mangiato a malapena quattro hamburger.
Diana invece non invecchia per niente. Ha occhi cerulei ed evocativi che non conoscono la banalità. Ieri mattina ci ho messo decine di minuti prima di capire che mi ero completamente perso a fissarla con aria ottenebrata, ipnotizzato dalla curva voluttuosa del suo bacino e dalle rotondità appena accennate e quasi pulsanti sotto il pullover viola che le ho preso ai saldi invernali.
Io invecchio, ma lei diventa sempre più bella.
Gli anni della meglio gioventù, quelli di “veniamo da lontano e andiamo lontano”, hanno lasciato immagini lontane, di tipo impressionistico, come rugiada che all’alba si alza dai campi in blocchi di foschia opaca e rarefatta. Vorrei urlare il nome di Diana contro le pareti semiscrostate di questo bar simile a una latrina, ma evito perché so che biascicherei qualcosa di patetico e incomprensibile. Mi restano i pensieri, le fantasie. So che in fondo lei non è troppo lontano da qui. A Cornaredo stasera c’è la festa estiva di Rifondazione Comunista. Concerti, danze e salamelle non stop fino alle tre di notte. Se mi concentro mi sembra di vederla sul sedile posteriore di una Opel Corsa del ’99 che sfreccia tra le vie deserte dei paesini, impregnate di afa e zanzare. Alla guida c’è un trentenne coi dreadlocks attorcigliati sulla testa e una maglietta della Jamaica, che passa una canna alla sua amica, una donna sulla quarantina che ha il mento pigiato contro la zip di una felpa rossa di garza, munita di tre strisce bianche verticali che scendono dalle spalle fino al polsino. La macchina avanza incerta lungo le viette tutte uguali di un piccolo borgo inghiottendo gli aloni color arancia rancida dei lampioni che, come sentinelle, presidiano le strade deserte; oltrepassa la vetrina di una videoteca illuminata e Diana con la coda dell’occhio nota che dietro le porte di plastica e plexiglas c’è una giovane coppia a ridosso dello schermo del videonoleggio. Avranno al massimo sedici anni e si stanno baciando timidamente, sicuri che nessuno li stia osservando e che il film da scegliere può attendere ancora una manciata di secondi. Per tutto il resto del tragitto Diana non fa altro che pensare a loro, a come sarebbe potuto evolvere il sabato sera di mezza estate di quei due ragazzi. Un film di prima visione, un soffice divano. L’intimità di una casa che il primo grande esodo estivo ha reso vuota e complice. I genitori al mare per almeno due settimane e l’occasione più unica che rara di nascondersi all’insaputa di tutto e di tutti tra le mura amiche, quando in paese non restano che ronde di lampioni e insetti ronzanti rinvigoriti dall’aria umida e pesante. La vedo sospirare, mentre immagina il fondersi dei loro respiri in un salotto accogliente e morbido di tappeti e cuscini e colori caldi e amaranto a far da veglia sui loro segreti di adolescenti.
Ieri mattina Diana se n’è andata senza dire nulla. Quando sono tornato a casa ho trovato una lettera di ben quattro pagine che non vi leggo per intero, non voglio sprecare il vostro tempo prezioso. Si poteva riassumere in un concetto molto semplice: Me ne vado perché il dipanarsi del tempo ci rende ogni secondo più squallidi.
So che non tornerà e non la biasimo. Da quella volta in cui mi urlò in faccia che ero diventato un borghese che non crede più a niente ho contato le giornate che mi separavano da questo momento. E probabilmente ha ragione. Non credo più a niente. Forse non ho mai creduto in niente.
Il gigantesco tendone flaccido e verdastro sotto il quale si svolge la Festa sta in realtà ospitando una sorta di sfuocata fiera dall’anacronistico camuffata da cocktail party. Tra le luci biancastre e soffuse delle lampadine pendenti da fili nudi annodati a tubi di plastica orizzontali che percorrono in vari punti la circonferenza del capannone è possibile distinguere una moltitudine di gente, età media quarant’anni, calata in abiti che si potrebbe definire di tipo ostentatamente alternativo; non mancano cani di grossa taglia, capelli lunghi, in molti casi a dispetto di alopecie non curate, birre sgasate in bicchieri di plastica croccante e bandiere cubane o della vecchia Unione Sovietica. Il cantante del gruppo che si sta esibendo sul palco ha appena finito di gridare con tono gutturale siamo tutti clandestini e Diana non può fare a meno di pensare che sicuramente nella tasca dei pantaloni di pelle lo sfacciato front-man avrà un documento d’identità valido o quanto meno un permesso di soggiorno. Poi si guarda in giro e vede adagiato contro la travi in compensato degli stand due striscioni: uno recita “Circolo Ho Chi Min”, l’altro “Accolita dei giovani di Gramsci”. Con occhi sopraffatti da un senso di compatimento guarda il tizio con la maglietta jamaicana e la sua amica e afferma sardonica: «Ci sono stronzi che vincono le elezioni organizzando ronde e costruendo rotonde stradali anche nel cesso di casa. E noi? Dopo tutti questi anni ci masturbiamo ancora al Circolo Ho Chi Min». La squadrano basiti come si guarda un disabile che sta rifiutando l’insegnante di sostegno. Diana silenziosamente li manda a cagare. Vuole solo tornare a casa, ma prima cercherà di mettere a tacere il buco che ha nello stomaco con un panino alla salamella. Al bancone del bar un signore con dei baffi che si mangiano mezza faccia le dice che le salamelle sono finite da un pezzo. E’ il colmo. Non hanno neppure l’istituzionale salamella d’ordinanza. Anch’io sto per andarmene dal bar. Il titolare dice che deve chiudere ed ha appena vinto al videopoker. Dalla macchinetta stanno ancora tintinnando fiumi di monetine che sembrano non finire mai. Questa è la vera valenza formativa che si ottiene “facendo chiusura” presso i pubblici esercizi muniti di tali demoniaci apparecchi: impari che prima di tirare giù le saracinesche il capo della baracca gioca al videopoker fino a sbancare perché quei cavoli di cosi che emanano lucine iridescenti sono tarati per farti vincere una tantum e, una volta svuotati, il giorno dopo potranno fare nuovamente il pieno di gettoni senza lasciare neppure una vincita al malcapitato di turno. Diana nel frattempo si è fatta riaccompagnare dal tizio jamaicano in uno sgombro monolocale nel quale passerà questa notte. E’ livida in volto, trafitta da un senso di insoddisfazione che le fa venire voglia di urlare. Vorrebbe indietro tutti i suoi anni, ma sa che non torneranno più. Mentre si slaccia meccanicamente il reggiseno con aria distratta, il tizio jamaicano è nudo sul letto ed ha acceso la televisione. Nello schermo dodici pollici, poggiato su un polveroso tavolino dell’Ikea, fa la sua apparizione un signore col lifting bardato di cerone che garantisce al popolo italiano che l’amore vincerà ancora una volta sull’ invidia e sull’odio. Diana sfila anche le mutandine e si sofferma per un attimo su quel volto. Poi dentro di sé maledice il Sessantotto con tutte le sue forze. E sono sicuro che prima di entrare in quel letto maledice anche me.

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