1 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica" (II edizione - sezione racconti)
Bruno Bianco - Odori

Ero andato non molto lontano da qui, ma erano comunque trent’anni che non ritornavo, dal giorno della tesi di laurea, luglio 1970; a casa mia c’era stata una festa di quelle che te le ricordi per un bel po' di tempo e i miei amici la mattina dopo per riprendersi dai bagordi avevano chiesto tutti un giorno di permesso alla Cesa.

Già la Cesa, quell’enorme fabbrica vicino al fiume.
Nell’inverno del ‘52, qualche giorno prima di Natale, il sindaco riunì il Consiglio comunale; “Si invita tutta la cittadinanza a partecipare per importanti e grandiose comunicazioni”, diceva il manifesto.
-Vi comunico ufficialmente che il prossimo anno la società Cesa, la più grande azienda chimica italiana nonché una delle più importanti d’Europa, ha scelto il nostro paese per realizzare un nuovo e moderno stabilimento.-
In paese tutti capirono che il merito era del Marella, il fiume che proprio lì si sedeva docilmente nella piana, quasi raddoppiando di larghezza rispetto agli altri punti del suo scorrere. Perché uno stabilimento della più grande azienda chimica italiana nonché una delle più importanti d’Europa, ha bisogno di acqua, tanta acqua; acqua da prendere, acqua da consumare e acqua da utilizzare come letto per gli scarichi di tutta la fabbrica.

2928 dipendenti; questo fu il numero massimo che la Cesa raggiunse nello stabilimento della Val Marella. Ne giravano di soldi allora e non c’era anno che non si facesse qualcosa di nuovo, che la Cesa non contribuisse a dare qualcosa di nuovo al paese. Il primo fu il campo di calcio; non un normale campo di paese, ma quasi uno stadio, con pista di atletica e una fila di gradinate intorno. Negli anni dopo arrivarono il palazzetto dello sport, la piscina, il mercato coperto, il circolo, la biblioteca, la bocciofila, il teatro; e tutte le volte il direttore della Cesa veniva personalmente a tagliare il nastro.

Intanto nel fiume avevano smesso di fare il bagno. Se entravi nell’acqua uscivi tutto unto, come se ti avessero massaggiato con dell’olio di oliva; sovente l’acqua aveva un odore fastidioso, se ti capitava di bere ti veniva quasi voglia di vomitare e in più si formavano anche dei mulinelli che se non stavi attento ti trascinavano chissà dove. Così un giorno, il messo comunale andò a piantare lungo la riva decine di cartelli che segnalavano il “divieto di balneazione” ai sensi di una serie di articoli, paragrafi e commi di legge che nessuno conosceva; ma quando misero i cartelli erano ormai mesi che più nessuno faceva il bagno nel Marella, perché il bagno si andava a farlo direttamente nel mare. Con la Vespa o con la Cinquecento, la domenica partivano tutti; attraversavano l’appennino, una o due soste a far raffreddare il motore e in un paio d’ ore si arrivava sulla spiaggia insieme agli operai e agli impiegati delle città. E del divieto di balneazione ai sensi dei vari articoli, paragrafi e commi, in paese non interessava niente a nessuno.

Il primo che smise di andare al mare la domenica fu Mario. Mario abitava sulla strada che portava a casa dei miei, due curve sotto; era della stessa leva di mio padre e se ne andò che stava all’ospedale. Tutti dicevano che Mario nella vita aveva fumato troppo; pipa, toscano, sigarette dal filtro o rollate con cartina e tabacco. Anche Giovanni fumava, forse più ancora di Mario e così Rodolfo detto “Dulfu” e Piero detto “Pietrin”; loro almeno riuscirono a morire a casa, facendosi dimettere dall’ospedale sempre qualche giorno prima. Teresa invece non aveva mai fumato in vita sua, però a lei il tumore l’aveva presa nelle ovaie e in paese dicevano che erano cose da donne, che le ovaie non potevano c’entrare niente con i polmoni di Mario, di Giovanni, di Rodolfo detto “Dulfu” e di Piero detto “Pietrin”; quando però il mostro attaccò e distrusse anche i polmoni di Elda che aveva fumato lo stesso numero di sigarette di Teresa, l’idea iniziò a farsi più forte. Perché poi toccò anche ad Angelo e lui dentro alla Cesa non aveva mai messo piede, però alla fine i polmoni ce li aveva rimessi pure lui. Ma non era solo questione di polmoni; ogni tanto qualcuno veniva attaccato nello stomaco, qualcun altro alla vescica, altri nell’intestino e nel fegato. Nascevano bambini con deformazioni, mentre altri nascevano già morti; altri ancora non nascevano affatto perché iniziavano a essere tante le coppie che non riuscivano ad avere figli.

Poi una mattina presto ci fu una fuoriuscita da un impianto che il cielo diventò nero come quando in estate si prepara un temporale e per due giorni in paese non si riusciva nemmeno più a respirare; Dall’ispezione uscì che andavano fatti dei lavori di adeguamento e la Cesa disse subito che per fare quei lavori avrebbe dovuto fermare degli impianti, lasciare a casa della gente, diminuire i posti di lavoro; dopo aver sentito per anni la frase “aumentare posti di lavoro”, per la prima volta adesso si sentivano le parole “perdere posti di lavoro” e tanto bastò. Così la Cesa non adeguò nessun impianto. Gli ultimi anni della Cesa passarono tra cortei, aule di tribunale, occupazioni di palazzi della Provincia e delle Regione, dimissioni minacciate e mai attuate di sindaci e autorità varie, cassa integrazione e mobilità lunga, blocchi ferroviari e interruzioni di autostrade, chiusure di reparti e smantellamento di impianti. E in Val Marella, il 26 luglio del 1985, la ciminiera della Cesa esalò l’ultimo sbuffo e la fabbrica vicino al fiume chiuse per sempre.

Già la Cesa, quell’enorme fabbrica vicino al fiume.
Erano trent'anni che non ritornavo, dal giorno della tesi di laurea. Avevo poi trovato lavoro a 500 km da casa e da allora, anche se è difficile crederlo, non ero più tornato; c’era voluta la morte di mio padre per farmi rientrare. Non mi piaceva il paese e forse era per questo che dopo il liceo ero andato all' università; i miei amici lavoravano già tutti in fabbrica, ma mio padre era contento.
-Bravo. Diventa ingegnere e poi vieni a lavorare alla Cesa.- Penso che pregustasse già di vedere suo figlio che faceva il dirigente mentre lui era un semplice operaio. Da settembre a fine dicembre; non ero mai stato lontano dal paese per così tanti giorni. Ero arrivato con il treno nella piccola stazione per le vacanze di Natale e l’avevo subito sentito, sentito per la prima volta; quell’odore di letame, sì perché era proprio puzzo di letame. Che poi devo ancora capire adesso perché le esalazioni delle fabbriche chimiche puzzano di letame; come se il letame avesse dentro di sé la somma degli odori di tutti i prodotti chimici mescolati tra loro. In quel momento avevo anche pensato a tutte le volte che mi era stato detto:
-Ho capito dove abiti! In quel paese dove c’è sempre la puzza di letame.-
E io a dire che avevano solo delle storie, che erano passati mentre qualche contadino stava concimando i campi. Invece avevano ragione e da allora, ogni volta che rientravo dall’università, vale a dire Pasqua, Natale e in estate, lo sentivo sempre quell’odore; ogni volta più forte, ogni volta mi dava più fastidio. Alla fine lo avvertivo già qualche giorno prima di arrivare; il solo pensiero mi generava quell’odore. Così, presa la laurea, con dispiacere immenso di mio padre, mi ero messo a cercare un lavoro che fosse non molto lontano da qui, ma abbastanza lontano da non sentire più quella puzza di letame che letame non era.

Adesso che ero ritornato la puzza non c’era più; lo sapevo, ero preparato, però faceva un certo effetto. Non tanto per la puzza, ma per quello che si vedeva; la Cesa, quell’enorme fabbrica vicino al fiume, era lì, con le sue ciminiere, con la sua ruggine e il suo abbandono. Anche il fiume, a guardarlo bene, era diverso; l' acqua era limpida, senza quell’arcobaleno di colori di quando ero giovane io. Dalla casa dei miei sulla collina potevo vedere tutto; rispetto a trent’anni prima molti capannoni non c’erano più e quelli rimasti erano come la Cesa, con la loro ruggine e il loro abbandono. E il campo da calcio? Adesso nel campo l’erba non esisteva più, le gradinate erano a pezzi, la pista di atletica era diventata una poltiglia di polvere rossa. Poi stupiva il silenzio; niente più camion per le strade o ruggiti di impianti industriali, nessun rumore di vita. Mi sembrava di vederli i quattordicenni del paese che dopo le medie si iscrivono alle superiori e dopo ancora all’università; inutile mettersi a cercare un lavoro, fatica sprecata. Se penso invece a prima; a quattordici anni nella Cesa o in una di quelle piccole fabbriche satelliti, da qualche artigiano, tubista, elettricista, impiantista. Tanto c’era lavoro per tutti.
Così guardo quelle vallate e mi viene voglia di scappare, proprio come trent’anni fa, quando il paese non mi piaceva e la puzza mi dava un fastidio insopportabile. Poi di colpo, improvviso, quell’odore, quel puzzo di letame che mi aggredisce il naso, il cervello, il corpo; è il dubbio di un momento, come se in un attimo fossi tornato a trent’anni prima, quando scendevo dal treno e sentivo un tanfo inconfondibile. Fino a che non vedo quel contadino, il trattore, il rimorchio; con un forcone sta distribuendo letame, letame vero.
Volevo scappare non molto lontano da qui e invece resto. A sentire l’odore di fabbrica. Odore della fabbrica vicino al fiume.

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