30 ottobre 2004

A room of one's own: a colloquio con Fernanda Pivano

Successe che, più o meno tre mesi fa, la chiamai: avevo le gambe che tremavano più di quella volta là al concerto della scuola, e sudavo gelido. Mentre ascoltavo il tu... tu... tu... del telefono, arriva la sua voce: stanca e lucida e profonda. All'inizio mi mandò educatamente affanculo perché stava dormendo (erano le due e mezza). Poi la richiamai verso sera e le spiegai che volevo intervistarla; sulle prime era un po' restia, diceva che era stanca, che anche lei doveva lavorare, che non voleva essere disturbata, che aveva 86 anni e anche lei doveva campare in qualche maniera...poi, sentendo la mia voce, mi chiese quanti anni avevo, io le dissi la mia età e...oplà...cambiò tutto. Si comportò quasi da nonna, mi chiamava "Caro", poi mi disse una cosa strana: "Pensa quanto tempo hai ancora per sbagliare...", mi incoraggiò dicendo che quell'intervista sarebbe stata molto meglio di quella pubblicata qualche giorno prima su Repubblica. Io mi ero preparato una sfilza di domande che non finiva più...gliene lessi solo una di quelle, perché poi chiacchierammo per un'ora intera.E mi raccontò tutto, da quando era piccola, ragazza, e via discorrendo, dei suoi amici americani, tutti gli scrittori e poeti e via dicendo. Avrei voluto chiederle più cose ma non ci riuscivo perché continuavamo a parlare e faticavo a stare dietro alle sue parole perché stavo scrivendo a mano. Poi abbiamo parlato di attualità, siamo arrivati al discorso di un ragazzo americano di diciassette anni che ha scritto un libro, Nick McDonnell (il libro si chiama Twelve), lei lo ha conosciuto e ha scritto anche la presentazione di copertina. Io lo conoscevo sto tizio, e le ho detto (testuali parole...): "Grazie al cazzo, lui però aveva entrambi i genitori scrittori, non ha avuto problemi per farsi pubblicare". Lei si è messa a ridere e io ho continuato: "Noi mortali invece come facciamo?" Lei infatti ha risposto che al giorno d'oggi, se non hai delle conoscenze, è impossibile che ti pubblichino un libro. E così le ho spiegato la mia passione per la scrittura, il mio sogno nel cassetto, e lei cosa mi ha detto?..."Io l'ho capito subito che sei un ragazzo molto intelligente, Luca, l'ho capito dalle prime domande che mi hai fatto, perché hai dimostrato di conoscere molto bene l'argomento...una cosa molto rara per un ragazzino, anche da quello che ci siamo detti al di fuori dell'argomento "beat generation..." E allora scrivi questo cazzo di libro! Fai il romanzo generazionale, maledizione! che in Italia mancano i giovani scrittori. Scrivi quello che vedi, però, non dare giudizi, non criticare, perché poi diventi un prete, un moralista! Fai che siano gli altri a formulare giudizi in base a quello che hai scritto…Oggi è fondamentale, perché gli editori non hanno capito che non si può sempre scrivere come il Manzoni, bisogna evolversi.So che ce la puoi fare, non mi permetterei mai di darti questi consigli se no. E poi, il giorno in cui lo scriverai, lo dedicherai a questa povera vecchietta...e mi porterai fuori a cena..."Piangevo più di quella volta che ho ascoltato l'assolo di armonica di The River sotto la pioggia di S. Siro. E così, da quel giorno, non faccio altro che pensare a quella conversazione. Tutto il giorno, la mattina quando mi sveglio, il pomeriggio quando studio, quando mangio, e soprattutto la notte, quando mi è concesso più spazio per sognare.

Partiamo dall'inizio. Tutti, penso, da ragazzi hanno un sogno nel cassetto. Il suo era diventare traduttrice?
No, non esattamente. Mi piaceva scrivere, ma mai poesie. Mi piaceva raccontare ciò che vedevo. A nove anni ho scritto il mio primo romanzo. Ma alla maturità mi avevano bocciato al tema di italiano, me e il mio compagno Primo Levi. Fu allora che decisi di bruciare il romanzo che scrissi da bambina.Beh, non avevano visto molto giusto i professori.Già (ride) ma sai, ti parlo di settant'anni fa. Oggi molte cose sono cambiate, per fortuna.

Invece come si avvicinò al mestiere di traduttrice?
Sai, ai tempi non sapevo nemmeno che esistesse la professione di traduttrice. Era una cosa del tutto nuova. Comunque, nacque tutto da Cesare Pavese, che era stato per un periodo anche mio professore a Torino, poi lo spedirono al confino, lo ammanettarono durante una lezione, in classe, davanti ai miei occhi… comunque, fu lui, in seguito, a mettermi in mano per la prima volta l'Antologia di Spoon River. Mi stavo laureando, e stavo lavorando a una tesi sullo scrittore inglese Percy Bysshe Shelley. Lui mi disse di provare con un autore americano ma io non riuscivo a cogliere le differenza tra le due letterature, glielo confessai, la cosa lo divertì particolarmente e mi diede del materiale statunitense, tra cui Whitman, Hemingway e l'Antologia di E. Lee Masters. Inoltre mi consigliò di fare la tesi di laurea su Moby Dick di Melville. Cosa che poi feci.

Fu in quel momento che tradusse l'Antologia?
Successe che mi innamorai di quelle poesie, della loro rivoluzionaria tenerezza, e presi subito a tradurle per conto mio, senza nessuna aspirazione professionale. Custodivo i fogli segretamente in un cassetto, non so come ma Pavese trovò il manoscritto, e mi disse sorridendo: "Allora hai capito che differenza c'è!" Lo portò all'Einaudi e fu pubblicato subito.Come ha accolto, molto tempo dopo, la trasposizione musicale dell'Antologia nel disco Non al denaro non all'amore né al cielo di Fabrizio De Andrè?Ero molto, molto commossa. Io e Fabrizio eravamo molto amici. Mi chiese se ero disposta ad accompagnarlo in quell'avventura in sala registrazione. Ne fui entusiasta. Quell'album l'avevamo fatto insieme.Mi ricordo di aver visto un video in cui lei consegna un premio a De Andrè, e lo consacra miglior poeta italiano contemporaneo…E ne sono fermamente convinta tutt'ora. Non abbiamo molti poeti e scrittori contemporanei, Fabrizio l'aveva forgiata, la poesia. E poi aveva quella voce così profonda e magica…La sua era la voce degli angeli. Era ineguagliabile. E non mi stancherò mai di affermare che lui non era il Bob Dylan italiano, come molti sostengono, era Bob Dylan a essere il De Andrè americano.Concordo pienamente, con tutto.

A proposito di America, come si è avvicinata alla cultura americana e agli scrittori beat?Dovetti aspettare prima di compiere il mio primo viaggio negli Stati Uniti. Il passato antifascista di mio padre aveva creato qualche sospetto nelle autorità americane, e ci misero un po' a darmi il visto.Mi accostai a loro soprattutto grazie a William Carlos Williams, che incontrai a Portorico. Era il 1956, e stava lavorando all'introduzione di un libro di poesia di un ragazzo che prometteva bene: Allen Ginsberg.Lui si che aveva visto giusto…Sì, ma non era ancora Urlo. Quello uscì in seguito. Si trattava, se non ricordo male, di Empty Mirror. Da lì in poi conobbi tutti gli altri ragazzi americani.

Mi racconti…com'erano?
Oh, è stato il periodo più bello della mia vita. Erano dei geni assoluti, anche se i critici, spesso e volentieri, li stroncavano.Posso immaginare…Eh, ma…quella era l'America di McCarthy, della caccia alle streghe. Loro erano i primi a parlare in maniera così schietta di libertà. Erano tutti anti-fascisti, come me, instaurammo subito uno splendido rapporto d' amicizia. Come mi divertivo con loro! Mi stupivano sempre; erano veramente persone brillanti. Sognavano di ribaltare il mondo,quello che a loro stava troppo stretto. E Allo stesso modo avevano ribaltato anche la scrittura. Qui entra in gioco il be bop, l' improvvisazione, se non sbaglio. Certo, Kerouac aveva rotto con i canoni classici, s' illudeva di mettere in prosa il be bop di Charlie Parker, questo soprattutto ne I sotterranei: romanzo precedente a On the road.

Si conoscevano Jack Kerouac e Charlie Parker?
Si, erano molto amici. Entrambi grandissimi artisti. La cosa che mi dispiace di più di Charlie Parker è che non possiamo trovare molti dischi, in quanto imperversava la guerra, e il materiale impiegato per i vinili era di impiego bellico. Un vero peccato. "Bird" era il poeta dell' improvvisazione … Poveretto, finì male … era così giovane.

Gli scrittori beat facevano uso di droga, vero?
Si, ma non confondiamo con le schifezze che assumono oggi molti ragazzi. Loro erano più che altro sperimentatori. Sognavano una sorta di droga telematica che gli permettesse la comunicazione dei pensieri, più che altro droghe di origine sudamericana. Alcuni scrissero trattati su questi esperimenti. Scienziati o no, Burroughs è stato invitato all'Università di Harvard come consulente del Center for Research in Personality, Ginsberg è stato uno dei relatori ufficiali di un ambulatorio medico. Svolgevano indagini sul peyote e sui costumi rituali degli indiani Mazatec della foresta messicane di Oaxaca.Le loro droghe non davano assuefazione. Un giorno Ginsberg mi disse: "Trattano i tossicomani come i nazisti trattavano gli ebrei" e mi spiegò che la marijuana è molto meno dannosa del whisky. Ed è considerata illecita. Sia chiaro che non voglio assumere le difese di nessun tipo di stupefacente, proprio io, che ho sempre sopportato a fatica anche le pillole per il mal di testa.

In cosa si distinguevano, secondo lei?
Beh, il genio era sicuramente Kerouac: è stato lui il fondatore. Gregory Corso invece era il poeta per eccellenza.Credevo fosse Ginsberg…Non metto di certo in dubbio le sue superbe doti poetiche, ma più che altro era grande nelle "relazioni pubbliche", il coordinatore di tutto, senza di lui non sapremmo neanche chi sono. Poi c'era Neal Cassady (ride) era il più matto, prendeva in giro tutti, mi divertivo un mondo quando c' era anche lui. Era il loro modello, aveva un fascino irresistibile, non per niente era il co-protagonista di On the road (Dean Moriarty) ma erano tutti dei bravi ragazzi…Nell'intervista uscita su Repubblica lei ha affermato che Ferlinghetti era solo un mercante…Si, e lo confermo, tra le sue poesie e quelle degli altri c'era una differenza abissale. La sua vita era più che altro nella casa editrice, la City Lights.

Facciamo un salto indietro, Hemingway come lo conobbe? Mi ricordo che lei disse, in un'intervista, che le sue parole erano come "stelle cadute dal cielo".
Bla bla bla…(ride) come sono brava vero? (ride nuovamente). Comunque, lo conobbi grazie all' incarico che avevo avuto da Einaudi di tradurre Addio alle armi. Era un libro proibito per i nazi-fascisti, ma io lo tradussi lo stesso, rischiai di finire ad Auschwitz, ma per fortuna non accadde. A guerra finita uscì il libro e da lì nacque la nostra stupenda amicizia.Mi sono sempre chiesto cosa pensasse Hemingway degli scrittori beat.Lui non li approvava, il loro era un modo diverso di concepire l' anti-fascismo. L'incomprensione era reciproca. Tieni conto del fatto che avevano vent' anni di differenza, praticamente due generazioni differenti.

Una curiosità: com' era Bukowski?
So che eravate amici.Oh beh, era un grandissimo scrittore, ma completamente diverso da tutti gli altri. Completamente anarchico, più espressionista nel vedere il mondo: aveva "orrore della realtà", la sognava e la scriveva. Diceva anche che nei suoi racconti ci metteva sempre un po' di sesso solo per venderli… ed era vero! Comunque era adorabile, ogni volta che ci incontravamo mi faceva il baciamano e mi regalava un mazzo di rose. Non l'avrei mai detto.E invece era un vero cavaliere.

E ora? Cosa è rimasto della "letteratura dei sogni "?
A mio avviso, l'unica autrice che ha portato avanti i loro ideali, è Patti Smith. Una donna che io stimo molto, ha saputo fronteggiare problemi personali gravissimi con grinta e forza. Inoltre è una straordinaria poetessa, con la "p" maiuscola. Un romanzo che ho gradito molto e ha cercato di proseguire sulla scia dei beat, è Le Mille Luci di New York [di Jay McInerney, N.d.R.], un libro che ci parla di libertà, ma ha anche dovuto rompere quella leggenda della droga che ancora oggi li perseguita.

Un' ultima domanda, che cosa le hanno insegnato questi romanzi e tutti i suoi amici americani? Il bene più prezioso che abbiamo, che io ho visto vacillare piano piano fino a scomparire del tutto. La libertà, ragazzo mio, la libertà.
Luca Ottolenghi

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